Venerdì, 26 Aprile 2024

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I dannati del girone latinoamericano

Rodrigo Andrea Rivas. Giornalista, economista e scrittore

Sono un sentipensante. Intendo dire che l’educazione, le  riflessioni, l’apprendistato… mi portano a cercare di coniugare le mie scarse cono- scenze con i sentimenti e con il corpo, e di riflesso col fare. E viceversa. Che rifiuto coscientemente di limitarmi a osservare gli avvenimenti sgranando del pop corn. Che rifiuto il ruolo dell’arcangelo che, da una nuvoletta, suona la lira mentre Roma, Quito o La Paz bruciano. Probabilmente, quella dell’arcangelo è una posizione comoda. Ma, che ci posso fare? Da non etereo né aspirante all’astratta perfezione, preferisco il dettame di “Guantanamera”: “Con i poveri della terra, voglio tirare la mia sorte”. Senza nulla togliere, anzi, alla necessità della critica.

Viviamo un tempo caratterizzato dal naufragio della società capitalistica dominata dalle finanze. Non è né una scelta né un’opinione, ma semplicemente un fatto. Non significa che il capitalismo cadrà da solo e presto splenderà il sole dell’avvenire.

La caratteristica dominante di questo periodo è la guerra. Come accadde per i colpi di Stato, la guerra non si caratterizza necessariamente per il moltiplicarsi dei carri armati per strada, ma per il ruolo determinante della forza militare.

Nel nostro tempo le guerre assumono diverse forme: rapina, saccheggio, furto e appropriazione dei beni e risorse utili alla vita delle popolazioni, indebitamento indotto e condizionante, guerre dirette e telecomandate, guerre indirizzate dai media, distruzioni rivolte a destabilizzare e impoverire intere regioni e Paesi... Comprendono i colpi di Stato per distruggere i governi che non si piegano, come accade ora in Bolivia, e la barbarie per sottomettere i popoli che resistono, come accade ora in Cile o nella Palestina.

Nel caso cileno la barbarie è in piena vista: decine di morti, migliaia di arrestati, centinaia di stupri, tantissimi guerci. Sparando ad altezza d’occhi con fucili caricati a pallettoni, come nelle migliori tradizioni della lupara di Corleone, la polizia cilena ha creato un nuovo deterrente di massa. Finora, da  quelle  parti si scompariva, si veniva uccisi, si brutalizzava e violentava. Ora si può anche diventare un avatar di Polifemo. Potrebbe derivarne un affare: «Abbiamo creato monocoli alla Mosè Dayan. Sono a disposizione in un ampio venta- glio di colori, tutti rigorosamente bisex: Bianchi per le tradizionaliste. Rossi per le comuniste. Verdi per le ecologiste. Pallidi per le timide...». In un paese di ciechi, anche guerci e guerce potrebbero re- gnare.

La diffusione della violenza comporta un’emigrazione di massa per la fine, reale o potenziale, di ogni diritto. Al capitale non interessano solo i pozzi di petrolio o il litio, bensì l’annientamento e lo sradicamento delle popolazioni. La Colombia ne è un esempio da manuale. Le guerre per impossessarsi delle risorse espandono fame e malattie, moltiplicano orfani e commercio sessuale,  distruggono identità, diffondono ignoranza e disperazione.

L’insuccesso e la decadenza sistemiche sono provate oltre ogni dubbio dalla carta bianca concessa alla NATO o confermando l’acquisto dei cari, insicuri e terribili F-35...

L’emigrazione di massa è conseguenza dello stato di guerra, reale o latente. La pacchia c’entra quanto i cavoli a merenda. Banalmente, quando  in Africa si diffonde la palma africana, in India il cotone OGM e nel cono sud latinoamericano la soia (altrettanto transgenica), intere generazioni di contadini perdono i legami con la terra e le loro possibilità di sopravvivenza.
Banalmente, africani e siriani, honduregni e messicani, emigrano per scappare dalle guerre e dalla logica della speculazione che porta loro la morte, fisica reale e concreta, o una lunga agonia mentale.
Viviamo una nuova forma di accumulazione originaria che non dipende essenzialmente dallo sfruttamento del lavoro ma dallo sfruttamento indiretto via saccheggio e usurpazione. Come a dire, banalizzando, che ai giorni nostri essere sfruttato è quasi un privilegio. Ai superflui, vicini e lontani, non si riconosce nep- pure la dignità.
In epoca vittoriana si lavorava 12-14 ore al giorno, grazie alle leggi contro il vagabondaggio che punivano con la morte coloro che vivevano per un mese con gli zingari, commettevano un furto nei supermercati o si tingevano la faccia per camuffarsi. La nostra modernità ha superato questo cattivo gusto con l’orgasmo plastico derivato dall’uso della carta di credito. Acquistare e consumare a rate è quel dovere dei cittadini che, nelle condizioni odierne, oltre a mettere in discussione la sopravvivenza del pianeta, permette che individui e Stati possano fare il loro ingresso nella spirale perversa dei debiti eterni.

Il caso argentino toglie ogni dubbio: Macri ha indebitato il paese per 100 anni

Il caso argentino toglie ogni dubbio: Macri ha indebitato il Paese per 100 anni. E pur pagando più di quanto ha ricevuto, ha moltiplicato il debito. In questa versione moderna della moltiplicazione del pane e dei pesci non è contemplata la rimessa dei debiti ed è stata eliminata ogni possibile Epifania.

img277La contraddizione principale del nostro tempo è tra la vita e la morte. La vita si difende con più vita. La difesa della vita in tutte le sue forme è la più alta coscienza di classe possibile oggi. Perciò, senza adottare forme di francescanesimo di massa, penso si debba cercare di vivere come si pensa sia giusto farlo se non si vuole finire per pensare come si vive.
Poiché il mondo non si cambia dall’esterno, la sfida è trovare risposte nella vita in comune, volere imparare accettando l’altro, costruire e modificare le proprie idee di partenza nella lotta e nel dibattito, non teorico ma pratico, per cambiare le condizioni di vita. In ciò identifico anche un inizio di risposta positiva alle lagne per la mancanza di una direzione politica, come accadde, ad esempio, nel caso cileno.
Autoassegnarsi ruoli dirigenti non suffragati da riscontri pratici, abitudine ancora assai diffusa, ha prodotto risultati non incoraggianti in ogni contrada. Il neoliberismo non è solo una forma estrema del capitalismo. È anche un sistema integrale di dominazione sociale, culturale e politica che crea una
élite oligarchica in tutti i terreni. Non si limita a supersfruttare i lavoratori, ma corrompe tutti ciò che tocca, specie i politici, e non lascia spazio al dissenso. Alle vittime resta solo la possibilità della ribellione. Esattamente quanto sta avvenendo in America Latina.
Concludo con qualche veloce annotazione sul Cile. Anzitutto, il ritorno alla democrazia è equivalso a una “museificazione della memoria”. La dittatura di Pinochet è rimasta onnipresente: informalmente nella paura del ri- torno dei militari al potere, nella disciplina economica del libero mercato, nel furto sistematico delle “risorse naturali”. La lunga transizione verso il nulla ha fedelmente seguito la scia segnata dallo sterminio e della scomparsa, fisica ed emotiva.
Formalmente, nella Costituzione del 1980 che ha reso obbligatoria la continuità del modello economico e l’impunità del regime militare. Malgrado gli sforzi per ricreare una memoria e ristabilire la verità e la tenace resistenza politica e culturale contro l’amnesia obbligatoria, alla fine è stato imposto il regime dell’oblio.
Fondamentalmente la transizione alla democrazia è stata un patto di controllo politicomilitare fondato sulla concertazione e sulla democrazia ristretta, un simulacro di “cambiamento d’epoca”, una “messa culturale” per celebrare una memoria senza giustizia, “uno show culturale” diventato poco a poco dittatura del capitalismo neoliberista misura di tutte le paure e desideri, libero mercato liberatore di tutte le fantasie ma- terialistiche che, in queste condizioni, diventavano pii desideri: casa, salute, educazione, divertimento e intrattenimento.

Prive da ogni senso, nel Cile post dittatura la vita, la morte e il dolore sono diventate merci totalitarie, gabbie di crediti, di debiti e di una brutale disuguaglianza mascherata dall’allegria dei numeri macroeconomici “positivi”. Poiché lo spettacolo è il concentrato falso del reale, il Cile ha rappresentato per tutta la regione l’incarnazione del political correct, la perfetta miscela articolata tra il libero mercato e un efficiente sistema di controllo politicamilitare, immaginario e reale.

Il Cile è stato vissuto, quindi, come la “sede classica” del neoliberismo latinoamericano.
La miseria creditizia e l’ipoteca sulla vita della stragrande maggioranza della società cilena “è coincisa” col dispiegamento della ricchezza delle élite, combinando la miseria dei lavoratori allo sviluppo dell’industria e del commercio. La nuova dittatura è scoppiata il 18 ottobre 2019. Nelle immagini di questa “rivolta pacifica” (la popolazione non ha sparato una sola cartuccia), si rintracciano i simboli di un’utopia urgente diventata domanda: si può vivere senza la dittatura del capitalismo neoliberista?

Il 20 ottobre il presidente Se- bastián Piñera ha dichiarato guerra alla società cilena: «Siamo in guerra contro un nemico potente». Dichiarazione seguita da una foto coi militari, sintesi rivelatrice della semiotica del terrore in arrivo.

Era l’anello fino allora man- cante per rendere trasparente la criminalità nascosta dello Stato neoliberista. Il suo “Siamo in guerra” assumeva l’eredità spettrale e genocida di Augusto Pinochet, al servizio del momento apertamente criminale della legge del valore capitalista.

Era, la sua, un’assurda e deliran- te dichiarazione di guerra: «Alle vostre casseruole e canzoni, opporremo le nostre armi. Che vinca il migliore».

Col realismo magico sempre in viaggio tra i latinoamericani, è diventata una “metafora di guerra” continentale. Una fotografia dell’ottobre cileno mostra una colonna con la bandiera mapuche, diverse bandiere cilene, la folla che protesta. In sottofondo, il fumo, il sole e il fuoco languiscono nell’orizzonte. Sotto, campeggia uno slogan: «È arrivato il momento di cambiare tutto».

È l’immagine stessa della ribel- lione e della sua utopia: Si può vivere senza il capitalismo neoliberista. Sono obbligatori una ribellione civile e l’organizzazione massiccia della pace.

Questa è l’utopia odierna in tutta l’America Latina. Utopia poiché intende smontare un sistema economico, politico e culturale basato sul totalitarismo della merce. Utopia poiché indica un mondo nuovo a partire dalla critica del mondo antico. Come tutte le utopie può finire male e a ciò si adoperano governo, parlamento, partiti… Ma ciò nulla toglie alla giustizia storica della mobilitazione dei cileni.

Ricordando Salvador  Allende, constato che nel Cile risvegliato i grandi viali si sono riaperti al passaggio di donne, uomini, gatti e cani liberi, e che la storia è nostra e la fanno i popoli.

Ma constato pure l’ostinata persistenza di quanto cantava Violeta Parra nel 150º anniversario dell’indipendenza (1960): «Cile confina a Nord con il Perù. E con Cap Horn confina a Sud. S’innalza a Oriente la cordigliera. E ad Ovest fa bella mostra il litorale… Ma, in mezzo alla Alameda de las Delicias (l’asse stradale attorno a cui fu costruita Santiago), Cile confina al centro dell’ingiustizia».


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