L’Italia, insieme a Francia e Regno Unito, rientra nella classifica SIPRI dei primi 15 Paesi per spese militari. Secondo i dati SIPRI aggiornati all’aprile 2019, le spese militari italiane destinate alla Difesa hanno raggiunto il valore di 27.8 miliardi nel 2019», afferma Benedetta Giuliani, laureata in Scienze Storiche e collaboratrice dell’Istituto Archivio Disarmo. Una parte del bilancio da tempo nel mirino dei movimenti pacifisti e non solo, che vorrebbero veder ridotto tale stanziamento del bilancio statale per destinare le risorse ad altri usi.
Stiamo assistendo a una ripresa imponente delle spese militari per la produzione e il commercio di armi. A cosa è dovuto tale fenomeno?
«Il settore degli armamenti è un settore senza crisi. Sono stati recentemente pubblicati gli ultimi dati del SIPRI uno dei principali centri di ricerca di spese militari e trasferimento d’armi, secondo cui le vendite delle più grandi compagnie produttrici di armi hanno raggiunto nel 2018 il valore di 420 miliardi di dollari americani, segnando di fatto un aumento del 4,6% rispetto al 2017.L’andamento dei ricavi complessivi del commercio internazionale di armi ha avuto un trend in continua ascesa negli ultimi 15 anni: tra il 2014 e 2017 è aumentato del 7,8%rispetto al quinquennio precedente, e del 23% rispetto al 2004-2008».
Quali considerazioni si possono ricavare da questo andamento delle spese militari?
«Rispetto all’aumento internazionale della produzione di armi emergono tre dati significativi:Gli Stati Uniti risultano ininterrottamente alla testa tra i paesi produttori ed esportatori.Gli Stati Uniti hanno distanziato in modo rilevante la Russia, suo rivale diretto, nella produzione ed esportazione di armi. Se tra il 2009-2013 la produzione di armi americana superava quella russa del 12%, tra il 2014-2017, questo divario è arrivato al 75%. I paesi situati al di fuori dell’area euroatlantica hanno un ruolo marginale rispetto al commercio di armi.Nella classifica dei primi 25 paesi esportatori di armi,diciassette sono compresi tra il nord America e l’Europa. Il Medio Oriente si afferma come una delle principali regioni dove cresce l’importazione degli armamenti, e questo riguarda tutti i principali esportatori, dagli Stati Uniti, alla Russia, fino ad arrivare a noi, alla Francia, alla Gran Bretagna e all’Italia»
Tra il 2009-2013 la produzione di armi americana superava |
Il commercio degli armamenti avviene in modo trasparente seguendo regole internazionali condivise, oppure presenta delle zone grigie?
«A livello nazionale, sovranazionale e della Comunità europea in realtà esistono degli strumenti giuridici volti a stabilire delle norme di trasparenza relative alla produzione e commercio degli armamenti. Tra questi strumenti il più importante è la Posizione Comune Europea del 2008 che stabilisce per l’export degli armamenti principi di trasparenza, rispetto dello stato di diritto e del diritto internazionale, in particolar modo per quanto concerne il rispetto dei diritti umani. Questi strumenti, pensati per essere giuridicamente vincolanti, in realtà si scontrano con gli interessi commerciali dei singoli Stati, e poiché alle politiche di difesa sono associate le norme che regolano l’export degli armamenti, molto spesso prevalgono gli interessi economici e strategici degli stati nazionali e questo concorre a creare delle zone d’ombra»
Quale ruolo ha l’Italia nel commercio internazionale di armi?
«Negli ultimi sette anni l’Italia si è ritagliata un ruolo di primo piano. Secondo i dati del Sipri tra il 2013 e il 2017 il nostro Paese si è classificato al nono posto tra i primi dieci fornitori di armamenti a livello internazionale, in particolare esporta armi piccole e leggere ed è competitiva anche nel settore navale. Ciò nonostante nella relazione che il Governo presenta annualmente al Parlamento riguardo alle spese militari, nell’ultimo anno si è registrato un calo del 53% dei trasferimenti complessivi dei sistemi di armamento. Tuttavia il nostro materiale bellico continua a essere competitivo e particolarmente apprezzato soprattutto nell’area del nord Africa e del Medio Oriente».
A cosa è dovuto questo calo?
«Al fatto che si stanno ancora smaltendo gli ordinativi di armamenti assunti dalle industrie italiane negli anni passati. Questi riguardano, per la maggior parte dei casi, sistemi militari complessi che richiedono un lungo processo di assemblaggio. Non si tratta pertanto di una contrazione legata a una crisi intrinseca al mercato militare, quanto piuttosto ai tempi di produzione richiesti dai diversi sistemi d’armamento»
A quali paesi vende sistemi di armamenti principalmente l’Italia?
«Per il 72% a paesi al di fuori della Nato e del blocco europeo. Nella graduatoria dei paesi acquirenti si trovano Qatar, Pakistan, Turchia e gli Stati arabi, nelle posizioni successive troviamo Germania, Stati Uniti e Francia».
A quanto ammontano le esportazioni?
«All’area del Medio Oriente e del nord Africa sono destinate il 48% delle esportazioni. Altrettanto significativa è la percentuale dell’export che finisce in Asia, il 21%. In particolare alcuni paesi dell’area Medio Orientale hanno visto aumentare il numero delle autorizzazioni concesse nel 2018: l’Oman e il Libano. In modo più specifico l’Arabia Saudita è uno degli acquirenti più dinamici e nel 2018 sono state concesse 13 autorizzazioni alla esportazione per un valore superiore ai 13milioni di euro. Per quanto riguarda invece gli Emirati Arabi Uniti ne sono state rilasciate 25 per un valore di 220 milioni di euro».
Secondo i dati del Sipri tra il 2013 e il 2017 il nostro Paese si è classificato |
La legge italiana impedisce l’esportazione di armi a paesi in guerra o a paesi che non rispettano i diritti umani. Un caso esemplare è l’esportazione di armi all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen.
«Come ho cercato di spiegare, esistono norme nazionali e internazionali in materia, ma l’esportazione di armi è saldamente nelle mani degli Stati nazionali, che non sempre si attengono alle disposizioni sovranazionali. Peraltro, si tratta di un problema che non riguarda solo l’Italia. Ci sono paesi come la Germania e la Francia che continuano a stipulare accordi commerciali per la vendita di armi con paesi le cui condizioni politico-istituzionali sarebbero incompatibili con gli standard fissati dalla normativa europea».
Accanto al sistema di esportazione di sistemi d’arma in modo più o meno regolare esiste un mercato clandestino delle armi?
«Sì, ed è un fenomeno che riguarda in particolare alcuni sistemi d’arma, come le armi piccole e leggere. In quest’ultimo caso esistono reti di traffico illecito radicate nei Balcani, nel Maghreb e in Medio Oriente. Come evidenziato da un recente rapporto di Archivio Disarmo, la dimensione del traffico illecito di armi leggere si svolge a livello regionale, attraverso forniture contenute ma continue che risultano in un progressivo accumulo di armi. Altrettanto rilevante è il ruolo svolto dal web, che crea un ulteriore luogo di incontro tra domanda e offerta, e da strumenti come le criptovalute che agevolano l’acquisizione di armi da parte di utilizzatori non conformi al diritto».
Come arrivano e da chi vengono fornite le armi ai terroristi?
«Occorrerebbe fare un discorso particolare per le diverse organizzazioni terroristiche. In generale, è possibile affermare che i gruppi fondamentalisti spesso riescono ad avere accesso a partite di armi originariamente prodotte legalmente ma che successivamente, tramite lo sfruttamento di relazioni di corruzione con i funzionari degli Stati di provenienza, transito e destinazione, arrivano nelle mani di gruppi armati non-statali. Questo tipo di transazione, che si approfitta di una corruzione endemica, caratterizza ad esempio il traffico di armi che dai paesi dell’ex Unione Sovietica sono trasferite verso zone di conflitto in Africa. Esiste poi un mercato propriamente illegale, in cui venditore e acquirente sono del tutto privi di status legale per effettuare il commercio. È chiaro che la mancanza di un controllo statale stringente (caratteristica presente in Stati falliti come la Libia) agevola il consolidarsi di canali commerciali illeciti».
di Benedetta Giuliani. Collabora all'Istituto Archivio Disarmo
PRETI CON LE STELLINE
Nonostante l’Italia sia una repubblica laica e aconfessionale dove non vige una religione ufficiale di Stato, i successivi concordati con il Vaticano (compreso l’ultimo rinnovato da Craxi nel 1984) prevedono un servizio di assistenza spirituale alle forze armate affidato a sacerdoti cattolici in qualità di cappellani militari. Il loro status, normato dalla legge italiana nel 1961 (governo Fanfani, Andreotti alla Difesa), è quello di generali e ufficiali superiori con i relativi trattamenti economici a carico dello Stato Italiano.Fin da subito,
il nuovo Ordinario militare italiano nominato da Papa Francesco, l’arcivescovo Santo Marcianò, si era detto disponibile a riformare l’istituto dei cappellani militari, aprendo alla possibilità della rinuncia agli alti gradi militari e ai conseguenti alti stipendi a carico della Difesa. Lo stesso aveva fatto il suo Vicario, monsignor Angelo Frigerio. Nel 2015 il Vaticano annuncia la costituzione di una Commissione paritetica bilaterale tra Stato italiano e Santa Sede con l’obiettivo di presentare una proposta di riforma al Parlamento entro la fine del 2016, incentrata su una loro riduzione del numero dei preti con le stellette. Ad oggi nulla è cambiato: alle parole non sono seguiti i fatti, e non ci sono più notizie sull’esito dei lavori della Commissione paritetica
La smilitarizzazione dei cappellani appare ancora un obiettivo lontano.