Secondo un rapporto dell’ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) negli arsenali militari delle principali potenze nucleari globali (Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) sarebbero stoccate circa 14000 testate svariate volte più potenti di quelle sganciate a suo tempo su Hiroshima e Nagasaki con effetti distruttivi di proporzioni apocalittiche.
«Sì, anche perché è proprio la tecnologia a essere cambiata. Quelle di Hiroshima e Nagasaki erano bombe atomiche a fissione nucleare, mentre queste di oggi sono bombe nucleari a fusione e sviluppano un’energia molto più distruttiva. Per darvi un’idea, ai tempi della Guerra Fredda il Titan II statunitense era dotato di una testata nucleare che da sola aveva un potenziale distruttivo maggiore di quello di tutte le bombe utilizzate nella II Guerra Mondiale, comprese quelle di Hiroshima e Nagasaki. Quel tipo di testate sono state dismesse e oggi si usano testate più piccole. In virtù di questo in molti è diffusa la convinzione che il loro impatto sia più limitato e circoscritto. È una pia illusione! Quelle nucleari sono le armi più indiscriminate mai concepite: non fanno distinzione fra civili e militari, tra chi è coinvolto e chi non lo è. Il fatto che ci siano bombe di minore potenza potrebbe essere addirittura più pericoloso, perché accresce il rischio che anche conflitti regionali degenerino in ecatombi globali. Pochi mesi fa uno studio fatto da alcuni esperti internazionali legati alla Rete Disarmo ha mostrato che, a causa delle carestie che seguirebbero alla devastazione ambientale provocata da un eventuale bombardamento nucleare, anche una guerra regionale circoscritta come quella fra India e Pakistan metterebbe a rischio l’esistenza di un miliardo e mezzo di persone».
A livello internazionale come si presenta la situazione dei diversi Paesi in merito all’utilizzo e al possesso di armi nucleari?
A livello internazionale possiamo distinguere 4 gruppi di Paesi: il primo è costituito dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che secondo il Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP) entrato in vigore nel 1970 sono gli unici ufficialmente deputati a possedere testate nucleari. C’è poi un secondo gruppo di 4 Paesi che non hanno mai aderito a questo Trattato, ma che è appurato abbiano sviluppato armi nucleari: India, Pakistan, Israele e Corea del Nord (che a differenza dei primi tre possiede testate nucleari, ma non vettori per poterle utilizzare). Il terzo gruppo è quello dei Paesi del cosiddetto Nuclear Sharing (Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Turchia) che fanno parte della NATO e ospitano testate nucleari statunitensi, senza poterle però utilizzare a meno di violare il TNP. Tutti i restanti Paesi - almeno ufficialmente - non hanno a che fare in maniera diretta con le armi nucleari».
Quindi, di fatto, l’Italia ha un ruolo tutt’altro che secondario nello scenario internazionale?
«L’Italia potrebbe avere un ruolo molto importante, con le proprie decisioni, nell’avviare un percorso di completa denuclearizzazione del nostro pianeta. Peraltro il nostro è l’unico fra i 5 Paesi del Nuclear Sharing ad avere sul proprio territorio due basi che ospitano ordigni nucleari: Aviano e Ghedi. La cosa interessante è che mentre Aviano è a tutti gli effetti una base Usaf, gestita integralmente dagli Stati Uniti, Ghedi è una base congiunta: ovvero una base italiana in cui vengono ospitate forze statunitensi. A Ghedi anche gli effettivi delle nostre forze armate sono addestrati a gestire ed eventualmente sganciare bombe nucleari dotate di doppia chiave, che per essere utilizzate devono ricevere l’Ok sia del Comando USA , che di quello italiano».
È di questi giorni la notizia del trasferimento di 50 testate nucleari USA dalla base di Incirlik in Turchia (considerata alleato poco affidabile) a quella Usaf di Aviano in Friuli Venezia Giulia...
«Si tratta di una notizia non confermata. D’altra parte chi si occupa di queste cose sa che c’è una preoccupazione statunitense rispetto alle testate nucleari della base di Incirlik, da cui 3 anni fa partì il colpo di stato contro Erdogan. In quell’occasione il governo turco decise di staccare per qualche ora la corrente alla base proprio per evitare ulteriori attacchi da parte degli insorti. Va detto che qualora gli Usa decidessero davvero di trasferire le bombe di Incirlik, la base di Aviano sarebbe verosimilmente la prima candidata ad ospitarle: perché è la base geograficamente più vicina e perché è già logisticamente attrezzata per lo stoccaggio e la gestione di armi di questo tipo; quindi ancora di più potrebbe diventare un obiettivo sensibile».
L’unica forza politica che ha chiesto pubblicamente al Governo di riferire sulla questione in Parlamento è quella dei Verdi per L’Europa, per il resto c’è stato un silenzio pressoché totale.
«Il problema non è che nessuno abbia chiesto oggi delucidazioni su questa vicenda specifica, ma che negli anni – al netto delle opportune necessità di riservatezza legate alla sicurezza nazionale – non ci sia mai stato un vero dibattito parlamentare rispetto alla presenza e al ruolo di queste testate tattiche sul nostro territorio. Per decenni nessuno ha ufficialmente confermato o smentito questa cosa. Noi lo sappiamo grazie ad esperti internazionali che sanno leggere i dati delle singole basi e fare delle valutazioni, ma non c’è stata alcuna conferma ufficiale».
Nello scenario internazionale, solo il Papa sembra impegnato nella campagna per la messa al bando delle armi nucleari.
«Il Vaticano è stato il primo Paese a sottoscrivere il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato da 122 Paesi a New York del 2017. L’Italia non ha nemmeno avuto il coraggio di partecipare alle negoziazioni. In occasione della recente visita in Giappone, Papa Francesco è andato addirittura oltre la stessa morale Cattolica nel denunciare l’immoralità non solo dell’uso, ma anche del possesso stesso delle armi nucleari e ha indicato nel Trattato uno degli strumenti di interposizione già disponibili per giungere alla loro totale proibizione. Ad oggi il Trattato è stato già ratificato da 33 Paesi. Occorre la firma di altri 17 affinché diventi norma internazionale vincolante. Se si riuscisse a farlo approvare entro quest’anno sarebbe il miglior modo di commemorare il 75° anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki»
L’uccisioine del generale Souleimani ha complicato ulteriormente la situazione, provocando il ritiro di Teheran dall’accordo sul nucleare sottoscritto nel 2015 (JCPOA) e la ripresa dell’arricchimento dell’uranio a scopi militari.
«I fatti di questi giorni sono solo l’epilogo di un processo iniziato già più di un anno fa, quando gli USA per primi hanno deciso di ritirarsi dal JCPOA del 2015; che stava funzionando, a dimostrazione che la denuclearizzazione si ottiene non per minaccia, ma per accordo. È chiaro che l’assassinio di Soleimani ha ulteriormente precipitato il corso degli eventi. Va sottolineato però che Teheran ha annunciato di volersi disimpegnare rispetto ad alcuni vincoli previsti dall’accordo, ma non a tutti. Probabilmente perché conta ancora sull’appoggio della UE. La pericolosità della situazione Mediorientale è inoltre legata da un lato alla presenza dell’atomica israeliana e dall’altro alle mai nascoste velleità dell’Arabia Saudita di dotarsi a sua volta di una propria bomba. C’è il rischio di un’escalation dagli impatti catastrofici».
Altro fronte caldo è quello Libico. La Turchia ha annunciato la decisione di intervenire militarmente a sostegno del regime di al Serraj contro il governo tripolitano del generale Haftar, sostenuto da Francia, Russia, Cina, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Che scenario si configura nell’area mediterranea?
«Tutta l’area Mediterranea fino al già citato Medioriente è da tempo l’area più problematica del mondo. La questione Libia, a mio avviso, almeno in questa fase, non arriverà a implicare l’impiego di armi nucleari».
Sembra che l’Italia sia in prima linea nell’invio di droni nelle zone calde del medioriente. Con il Muos di Niscemi collegato al sistema di comunicazione satellitare del Pentagono può raccogliere informazioni militari strategiche o compiere azioni militari mirate a distanza dal Mediterraneo all’Africa, fino al Medi Oriente e Mar Nero.
«In realtà Sigonella è già da tempo un hub in cui sono presenti i principali droni per l’area mediterranea e mediorientale degli USA. Sono presenti anche droni italiani, che per ora non sono armati, anche se è in corso una richiesta in tal senso. Peraltro il 20 novembre le truppe di Haftar hanno abbattuto un drone italiano da 20 milioni di euro senza che alcuna notizia trapelasse da Roma. Da novembre droni della NATO sono arrivati a Sigonella, pertanto il sistema di difesa euroatlantico avrà sul territorio italiano tutta una serie di proprie strutture per il controllo tattico del Mediterraneo fino al Mar Nero. La guerra con i droni finge di essere una guerra “pulita” perché fa meno vittime, ma in realtà nasconde le vittime e le problematiche e serve solo a peggiorare le cose»
Quali sono le implicazioni dell’uso sempre più pervasivo dell’intelligenza artificiale nelle strategie di guerra contemporanee? Non c’è il rischio di un esautoramento dei parlamenti nazionali in materia di politica estera e militare?
«Il caso più emblematico è quello di queste ore con Trump che decide di fare questo strike contro Soleimani bypassando completamente il Congresso americano. Il problema è che l’utilizzo dell’AI, quindi l’accoppiamento delle nuove tecnologie di trasporto e di trasferimento sia navali che aeree, una gestione che non è solo unman, con una guida a distanza, ma addirittura di armi totalmente autonome legate all’AI, come i cosiddetti killer robots, rischia di togliere qualsiasi decisionalità addirittura agli stessi militari. Il problema vero, al di là delle implicazioni etiche e morali connesse alla attribuzione a una macchina la decisione sulla vita e sulla morte di essere umani, è che tutti gli esperti internazionali sostengono l’incapacità, al momento, dell’AI di assolvere a quel sistema»
Recentemente gli Usa hanno varato un piano strategico di investimenti per rafforzare la presenza nello spazio cosmico con il coinvolgimento delle industrie del settore privato della Space Economy, creando un corpo armato spaziale americano. Che futuro ci aspetta?
«Sì, in questo caso è davvero una sorta di provocazione quasi gratuita. In primo luogo perché non ha alcun senso sul piano strategico tattico. D’altra parte però non dimentichiamo che qualunque rilancio da questo punto di vista significa un flusso di miliardi di dollari a favore dell’industria bellica. Non a caso subito dopo l’attacco recenti all’Iran le principali industrie del comparto militare industriale hanno fatto registrare un significativo rialzo nei listini».
Altra questione è il peso crescente dei contractors privati negli scenari di crisi, con l’appoggio della destra estrema che fa capo a Steve Bannon. In Medi Oriente sarebbero schierati circa 53000 contractors privati, il doppio del personale militare statunitense attualmente operativo nelle stesse aree. Così si privatizza anche la guerra?
«Sì, anche se in realtà il peso dei contractors nei teatri di guerra è minore rispetto a quello che si pensava. Ma il tema non è solo questo, ma il fatto stesso della loro presenza all’interno degli apparati di sicurezza delle principali potenze globali. Tanto per fare un esempio, l’attuale capo del Pentagono Mark Esper è un ex lobbysta della Raytheon. E se fra qualche mese dovesse essere rimosso dall’incarico tornerà tranquillamente a fare il lobbysta. Quindi le decisioni politico-strategiche della maggiore potenza a livello globale – che destina più di 700 miliardi all’anno agli investimenti in campo militare – sono in capo a qualcuno che per lavoro cerca finanziamenti per l’industria bellica.
di Francesco Vignarca. Coordinatore di rete Disarmo
F35, IL PUNTO SUL PROGRAMMA
IIl Joint Strike Fighter (F-35) è un bombardiere concepito per un attacco congiunto sotto guida USA, di tipo convenzionale o nucleare, quindi un sistema d’arma prettamente offensivo intrinsecamente contrario all’articolo 11 della Costituzione Italiana e al Trattato di non Proliferazione Nucleare .
Dopo due anni e mezzo di sospensione, nel 2017 è ripreso a pieno ritmo il controverso programma di acquisizione, da parte della Difesa, dei 90 cacciabombardieri americani F-35 Joint Strike Fighter: 60 in versione convenzionale e 30 in versione a decollo corto e atterraggio verticale da imbarcare sulla portaerei Cavour e sulla gemella, prossima ventura, Thaon di Revel.
Quindici aerei sono già stati acquistati… [altri] diciassette aerei saranno in tre anni: tre del 12° lotto nel 2018…, cinque nel 2019 e nove nel 2020 per un impegno di spesa ufficiale di circa 1,3 miliardi di euro, che diventano 3 miliardi calcolando tutti i costi di procurement. Contro questo impegno di acquisto in blocco si è chiaramente espressa la Corte dei Conti nella sua indagine dedicata al programma F-35 :
«Appare rischioso, oltre che contrario alle indicazioni parlamentari, impegnarsi fin d’ora in un block buy, contro il quale si è già pronunciato l’organo di controllo statunitense (il GAO, ndr), stante il mancato
completamento dei test destinati a dare una configurazione stabile al design ingegneristico, e a chiudere definitivamente la fase di sviluppo».
Il Pentagono prevede un costo complessivo del programma F-35 (2.470 velivoli in tutto) pari a oltre 406 miliardi di dollari, quindi con un costo unitario medio di acquisizione di circa 164 milioni di dollari, pari a 140 milioni di euro al cambio attuale.
In diversi Paesi partecipanti al programma JSF — non in Italia — i Parlamenti nazionali hanno chiesto conto del costo reale di questo investimento tramite audizioni o studi indipendenti, con esiti sempre uguali: la spesa reale complessiva, che tenga conto non solo dei costi di retrofit ma anche dei costi operativi e di supporto (Operating and Support, O&S) per l’intero ciclo vitale degli aerei (30 anni), risulta estremamente più elevata di quella ufficialmente prevista. Al punto da convincere alcuni governi a sospendere l’acquisto degli F-35.
Come nel caso del Canada dopo l’audit della KPMG del 2012 , che rivelò un costo complessivo di 35 miliardi di euro (45,8 miliardi di dollari canadesi) per 65 aerei…, quindi circa 536 milioni di euro a velivolo.
Lo stesso Pentagono ha recentemente stimato che l’intero programma JSF avrà costi trentennali di O&S (per 2.443 aerei operativi) di oltre un triliardo di dollari , ovvero 460 milioni di dollari - 390 milioni 59 di euro - ad aereo.
Per i 90 F-35 italiani significano 35 miliardi di euro oltre ai 14 previsti oggi, quindi un complessivo di quasi 50 miliardi (una media di oltre 540 milioni a velivolo, in linea con il risultato dell’audit canadese della KPMG)