Nella società odierna imperversa una algofobia, ovvero una paura diffusa e generalizzata del dolore
Le scomode verità, per definizione, sono quelle che non vorremmo mai udire. Fanno male, fatichiamo ad accettarle e le rigettiamo al mittente.
Nel suo libro “La società senza dolore” (2021), il filosofo tedesco Byung-Chul Han ce ne presenta una e lo fa in modo così convincente e persuasivo da non poterne rimanere indifferenti: nella società odierna imperversa una algofobia, ovvero una paura diffusa e generalizzata del dolore. Una delle conseguenze principali, secondo l’autore, è quella di evitare ogni situazione di potenziale pericolo che possa aumentare la probabilità di esposizione alla sofferenza in ogni ambito della vita, dalla salute fisica alle relazioni affettive.
La rimozione del dolore
Non solo evitamento, ma anche rimozione: il dolore non ha senso, non è utile né simbolicamente interpretabile, non si integra con le nostre vite e quindi deve essere asportato. Questo duplice processo, fatto di allontanamento e annullamento, contribuisce a provocare un cambio di paradigma sociale e morale di portata storica: se la positività è il carattere dominante e da esaltare, mentre la negatività è quello subalterno e da eliminare, il dolore, la negatività per antonomasia, viene preso di mira per primo, facendo della sopravvivenza il valore supremo e indiscusso.
Nuda vita
La vita viene così trasformata in mero processo biologico e svuotata delle sue contraddizioni, diventa nuda, pura esistenza fisica messa a repentaglio dallo stadio finale, la morte, la cui sovraesposizione mediale ci rende disorientati nel migliore dei casi, isterici nel peggiore. Quando la morte sopraggiunge all’attenzione delle persone, l’unico rimedio idoneo è ormai diventato la reificazione del dolore, ovvero una sua riduzione a oggetto quantificabile e calcolabile, che polverizza l’Io e le emozioni, eliminando ogni connotato intimo e indecifrabile per subordinare il soggetto a un’identità narcisistica e sfibrata dalla società impositiva della performance, la quale impone standard comportamentali esigenti e opprimenti. Non c’è tempo per interpretare il mistero della morte; il lutto, visto come insieme di pratiche e usanze che dovrebbero condurre non tanto alla comprensione, quanto all’accettazione, rappresenta solo una fase di passaggio.
Società della performance
Per società della performance si intende qui un nuovo modo di vivere e interagire con gli altri, il quale si basa sulla convinzione che ogni azione intrapresa da un individuo sia finalizzata all’accrescimento della propria reputazione e della propria considerazione. L’effetto più silenzioso ma allo stesso tempo impressionante è la ridefinizione dei valori che regolano le vite umane: sembra che in qualsiasi direzione si sposti lo sguardo, a chiunque si chieda aiuto o consiglio, domini una confusione tale da rendere l’esistenza priva di senso. Il massimo che si possa pretendere si traduce in interventi illusori e di breve durata, che assomigliano più a delle distrazioni. Se si sta male, si va a correre, se si è arrabbiati, si pratica yoga, se in casa non sappiamo starci, perché si incorre in discussioni, si va allo stadio.
“Estremismo” della performance
All’opposto, è sempre più facile incontrare “estremisti della performance”, individui che si riducono a pratiche eccessive per sincerarsi del loro vivere, stimolati dalla perpetuazione dell’uguale, dal conformismo, dalla regolarità dei propri ritmi lavorativi, desiderosi non di conoscenza, bensì di informazione; nell’era della comunicazione onnipresente e istantanea, non si cerca più di fare esperienza, perché non essendoci la negatività della trasformazione, cioè quella continua sperimentazione che spinge l’umanità verso la scoperta, non esiste il dolore come possibilità di cambiamento.
Eppure è proprio il pensiero come esplorazione e riflessione, quindi come possibilità della negatività del dolore, che ci rende umani e diversi dal calcolo algoritmico delle macchine.
Società palliativa
Questa nuova società, che potremmo definire palliativa per il suo modo di offrire soluzioni provvisorie, ha però bisogno di una sovrastruttura ideologica che ne garantisca il successo: la cultura del vincente.
Nella società della performance, dove conta il risultato e non il processo, non c’è spazio per chi si mostra fragile e vulnerabile. Bisogna bruciare le tappe, soprattutto quelle relative allo studio e al lavoro, i ritardi non sono ammessi e il fallimento non è contemplato. La cultura del vincente è quella che non concede disattenzioni, alimentando il disprezzo e la competizione a ritmo serrato. Il senso del piacere è ridotto a senso del dovere, il potere non si manifesta attraverso la libertà del decidere, ma nella facoltà del cambiare: cambiare la macchina, cambiare il cellulare, cambiare partner, amici, casa, occupazione. La cultura del vincente mira a omologare scoraggiando il pensiero critico e non ammette ciò che non comprende, a cominciare proprio dal dolore.
Successo: ideale assoluto
Il successo diventa l’ideale assoluto che si serve della meritocrazia come legittimazione etica della disuguaglianza, trasmutando il talento in una definizione tipizzata. Alle persone viene richiesto il bello, ma nel valutarle ci si affida al gusto, si selezionano i migliori con processi trasparenti, ma si incorre quasi sempre in procedure opache. La vera forza della cultura del vincente, come motore propulsore della società senza dolore, è la sua esclusività: quelli che contano davvero sono i pochi, i forti, non inclini al dissenso, ma alla massificazione. La perfezione viene forgiata non perché esente da difetti, ma perché taglia fuori la diversità, diminuendo i rischi.
Disprezzo e violenza dilaganti
Se dilagano disprezzo e violenza è anche perché la cultura del vincente sfrutta l’ignoranza emotiva e affettiva. Non siamo preparati ad affrontare una sconfitta, un rifiuto, l’imbarazzo dello smacco, ciò che conta è essere più bravi degli “altri”, almeno finché gli altri non diventiamo noi. Quando ciò avviene, infatti, siamo pervasi da un’illusoria frenesia di potere e dalla pienezza dell’utilità, che ci porta a ridefinire i concetti di giusto e sbagliato. In fin dei conti, il miglior modo per sottomettere le masse è dar loro l’illusione di avere un po’ di potere.
Quanto tempo dovrà ancora passare prima di far tornare il dolore nelle nostre vite, così da offrire un’alternativa alla cultura del vincente?
di Francesco Spinello