Lunedì, 28 Aprile 2025

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La Valle vista di traverso - Il paesaggio ignorato della E78

L'anacronismo dell'E78 e la nostra 'radicale inattenzione' al paesaggio dall’automobile” genitori a scuola di corretta alimentazione e lotta allo spreco.

Le tracce vive del paesaggio rurale nel percorso della E78

imparare la cura per fare la pace altrapagina INTRO

Un pomeriggio, di Domenica, in uno squarcio alla routine rutilante fatta di eventi programmati che si rincorrono, un senso di inerzia tutto invernale mi chiede di arrestare la mia Prius e concedermi i pochi minuti di margine sulla mia agenda per camminare ed osservare. Mi trovo lungo la strada vicinale parallela all’E45, nei pressi di un paio di importanti stabilimenti industriali contigui allo svincolo di Selci-Lama, in una frazione il cui toponimo –  “Macchione” – evoca con una certa ironia la wilderness dei secoli bui altomedievali.  Lascio l’abitacolo e la fissità dello sguardo che esso ispira proprio sotto l’incavo del terrapieno del viadotto, sormontato da una massiccia “scatola” di cemento armato, e mi incammino lungo la strada bianca vicinale che si inarca sotto il passaggio, per poter figurare dal fondo della conca valliva uno spaccato visivo ampio,  centrifugo. Mi trovo in una sorta di baricentro quasi equidistante tra le due sponde della cornice appenninica che cingono il nostro bacino; i versanti di rilievo che ci dividono dalla Chiana da un lato e dalle Valli di Montefeltro, Marecchia e Metauro dall’altro designano qui la massima ampiezza del fondovalle. La mia agentività visiva alterna le due scale: in quella di prossimità si moltiplicano, più o meno ancora vissuti ed integri, i corpi di fabbrica degli insediamenti rurali sparsi; casolari in tufo o in arenaria, generalmente bifamiliari, dispersi tra i seminativi spogli, stinti, in attesa di riattivare in primavera la loro ciclicità vitale. Alla cornice dell’orizzonte, al contrario, si colgono ai due lati i ciò che rimane di un vivere armonico costante, pressoché invariante nei secoli: verso occidente le dolci colline ai margini del “Buon governo” mediceo e lorenese nei territori citernesi, monterchiesi, anghiaresi e del Monte; a oriente il lieve terrazzamento che, ai piedi dei pendii dell’Appennino umbro-marchigiano, ospita lungo la Città-strada il cui midollo è rappresentato dalla Tiberina 3Bis, la parte maggioritaria dei nostri “urbanismi”: gli spazi della vita, della produzione e del consumo di noi Abitanti della valle.

Un quadro, non troppo dissimile da quello – appena più generalizzato – che fu ritratto con eccezionale sforzo intepretativo nell’oramai remoto 1969 dal geografo francese Henri Desplanques: le mille pagine del monumentale saggio Campagne Umbre sono una descrizione enciclopedica e a tutto tondo di un sistema territoriale, frutto di una cura e di un attenzione dettati dalla pratica quotidiana dei luoghi. Ville patronali come quella di San Martino, ex-conventi come quello francescano, e vestigia romane ne sono i segni più simbolici (e in alcuni casi iconici); sono i siti mappati da Fazio Perla nell’area di prossimità al tracciato posto in queste ultimissime settimane a Valutazione di Impatto Ambientale per il tratto valtiberino della “Due mari”, a corredo dell’articolo Grosseto-Fano: limitare i danni è possibile, apparso nel numero dello scorso Dicembre della nostra rivista.

Si parlava poc’anzi di una Città-strada altotiberina, la nostra: orientando infatti il nostro sguardo, come la maggior parte di noi abitanti-conducenti di automobili della Valle siamo abituati a fare, secondo una cardinalità approssimativamente Nord-sud che asseconda e costeggia rialzato il corso del fiume che ha generato l’intero territorio, la superficie urbanizzata innervata sull’asse della Statale non presenta soluzione di continuità. Quantomeno dalle periferie di Melello e Viale Osimo a Sansepolcro fino alla frazione meridionale di Santa Lucia a Città di Castello, la successione di sguardi dal finestrino distratti, acritici, ci renderà flebile il sentore di fisionomia, di riconoscibilità e di compiutezza urbana. L’espansione e diffusione dell’abitato, dello spazio produttivo e dei servizi di cui il collega geografo Gabriele Marconcini va curando una interessante “geostoria” i cui più recenti progressi sono stati pubblicati  per TevereTV in questo mese di Febbraio, è fatto consustanziale alla modernità più che effetto collaterale di uno sviluppo industriale vocato al tempo-freccia della modernità industriale e post-industriale dei consumi.

La profonda e radicale trasformazione intervenuta dalla fine della mezzadria tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso, ha inaugurato il mutamento dell’immagine percepibile del paesaggio, fino ad allora sostanzialmente la stessa che si perpetuava dalla fine del Medioevo. Trasformazioni che non riguardano tanto la morfologia dei luoghi, quanto più propriamente la ‘pelle’ del territorio, inteso come ciò che si fa ai nostri sensi mentre lo percorriamo sfrecciando andando a prelevare i figli dopo l’allenamento di calcio, accodandosi stanchi alla rotonda dopo il turno di lavoro, recandosi a fare compre al grande magazzino dei cinesi. La campagna urbanizzata, definizione proposta nel 1975 dal economista e teorico urbano Giacomo Becattini e pienamente adattabile allo sviluppo dell’Alta Valle del Tevere, conserva ancora plurime tracce del suo passato, della storia che l’ha costruita, ma l’attraversamento esclusivamente automobilistico cui la sottoponiamo quotidianamente finisce per divorare uno a uno gli elementi che la caratterizzavano ai nostri sensi come entità spaziale distinta e riconoscibile.

Ma se ruotiamo di novanta gradi, tagliando nel suo ventre più ampio il bacino proprio nel tratto prima del cavalcavia del ristorante “Il musicista”, scopriamo infatti che la campagna umbra raccontata da Desplanques esiste ancora, viva e leggibile. Lo spazio vernacolare opportunamente difeso da vincoli ambientali nell’intero versante occidentale, lo status di eredità di un patrimonio paesistico dal respiro ecumenico per la quasi totalità dei territori comunali di Monterchi e Citerna, e dall’altro lato  la marginalità di Valdimonte e e della cesura che il torrente Lama produce a quell’altezza del Versante dell’Appennino Umbro-marchigiano che ospita Il molino medievale Renzetti e gli insediamenti di Ripole e Parnacciano, permettono di rilevare ancor’oggi la composizione del mosaico significante del paesaggio culturale in una sostanziale preservatezza. Un paesaggio che reifica quel fenomeno di saturazione progressiva da parte dell’attività agricola, che a partire dal XVI-XVII secolo inizia attraverso il disboscamento di aree altocollinari e la bonifica del fondovalle, e che raggiunge presto e mantiene un equilibrio stabile sino alla metà del Novecento. La resistenza alla trasformazione, legata alla marginalità complessiva di questo come di altri territori umbri, tende a conservare i suoi tratti fondamentali; tratti che permangono ancora oltre la metà Novecento tra i borghi e negli abitati rurali di valle come Selci: la struttura mezzadrile, l’appoderamento, gli insediamenti sparsi e in parte la coltura promiscua. Il modello territorial-culturale della valle tradizionale dai canoni semplici e rigidi: città, contado, economia chiusa ed a lungo autosufficiente.

“Due mari”: ovvero Il “taglio” che recide

A condividere questa erranza domenicale c’era Giulia, editorialista e critica dell’arte, la cui esistenza si alterna tra Milano e il casolare dove è cresciuta, a Rosciano, ai piedi di Citerna, in una delle sopra citate case sparse che il primo dei due lotti altotiberini dell’E78 “incrocerà” nel suo percorso. Dal campo visivo del Macchione, alternando sguardo vicino e lontano, tentiamo di figurarci la devastazione apportata dal taglio di un tratto di superstrada che in un paio di decine di chilometri che in senso longitudinale dividono Le Ville da Parnacciano inanellerebbe almeno nove viadotti, in alcuni casi alti fino a 15 metri, e una serie di imgombrantissimi terrapieni, che si sommerebbero a ben quattro distinti trafori, incrociando la E45 proprio qui, nel cuore della valle. Come scriveva ormai Venti esatti anni fa il nostro allora direttore Enzo Rossi:  “una specie di percorso a montagne russe, zigzagando tra agglomerati urbani, dividendo paesi, distruggendo il paesaggio e costeggiando insediamenti archeologici”.  Riguardo questi ultimi il riferimento di Rossi, la cui opinione all’epoca circa la realizzazione dell’opera era al tempo, per diverse ragioni allora valide, moderatamente favorevole, correva agli scavi di Colle Plinio, dove, secondo la più probabile delle due attuali ipotesi di tracciato, il viadotto lambirebbe di poche decine di metri il sito in cui si trova sepolta la stessa Villa in Tuscis narrata nella celebre e omonima lettera che Plinio invia all’amico Domizio Apollinare. In essa il grande autore latino di epoca imperiale tratteggia ed esalta le armonie del paesaggio naturale che si stagliano dall’altura antistante l’abitato di Valdimonte, in quella che a tutt’oggi la più celebre descrizione letteraria che l’umanità ha prodotto circa il nostro territorio.

In generale, quando le gambe dei viadotti, terre sospese, cercano il suolo dei territori, creano sempre degli spazi problematici; in campagna come in città, le infrastrutture autostradali non seguono una logica di appoggio alla morfologia primitiva, ma si fanno di per sé paesaggi.  «Nuovi paesaggi ibridi – come li definiva l’urbanista Pepe Barbieri – che metabolizzano improvvise accelerazioni della storia; frammenti estranei e vernacolari si intersecano cercando di sopraffarsi a vicenda, talvolta contaminandosi, talvolta testimoniando l’inedita dialettica».  Un senso di deriva ci può allora cogliere al cospetto degli interstizi che tali viadotti creano; il vuoto di quello che la geniale definizione del filosofo paesaggista Marc Desportes definiva spazio tecnico maggiore (contrapposto alla pienezza dello spazio minore vernacolare sotto minaccia); i centri degli svincoli, le imboccature delle bretelle, le zone sottostanti ad un viadotto; «cavità ed incavi dello spazio autostradale – scrive Desportes – che ci pongono di fronte al vuoto lasciato dal pensiero tecnico».  Spessori infrastrutturali, aree deboli, che comprendono non soltanto il manufatto tecnico ma anche quelle aree d’attrito con temporalità differenti che lo compongono,  che dialogano con i canali di scolo delle fognature che si aprono tra gli spazi agricoli e le aree lottizzate, alla ricerca del più vicino ruscello, o magari del Tevere stesso; ci si potrebbe allora figurare questi spazi vuoti che voltano le spalle alla funzione per organizzarsi in una vita autonoma e parallela: essi continuerebbero, o forse tornerebbero ad essere in qualche maniera abitati? Domanda non retorica, alla luce di un’osservazione autentica dell’Habitus dei valitberini. In un atto di refrattarietà, di isofferenza alla modernità omologante, alcuni abitanti della campagna urbanizzata, specie gli anziani o gli adolescenti, scelgono gli interstizi obnubilati: i primi per coltivare l’orto abusivo, o concedere spazio e fiato al proprio cane, gli altri a bivaccare essi stessi, a fare l’amore la notte, o a cercare nuove scorciatoie per eludere i controlli della polizia.  Un habitus cresciuto fuori e contro quel progetto moderno che risulta incapace di riconoscerne i valori e quindi di accedervi.

“La Valle scomparsa”: un contributo del 2009 per leggere le trasformazioni del nostro paesaggio
È tuttavia quasi utopico in questi tempi oscurantisti immaginarsi un’azione politica che contempli il diritto e la presenza di generi di vita residuali, e ancor meno delle specie animali e vegetali spontanee, già fortemente minacciate dal biocidio della tabacchicoltura: esperendolo secondo una prospettiva mainstream, generalista e maggioritaria, ovvero da dentro il comfort dell’abitacolo, inseguendo un’agenda affannosa, protetti dietro il parabrezza dei SUV o delle utilitarie, il paesaggio dei territori che abitiamo è perlopiù lontano, trasfigurato, un simulacro politico e sociale del territorio come lo abbiamo sopra descritto; i flussi veloci automobilistici rendono visivamente vicini spazi e centri che non sono contigui, ma anzi frammentati, divisi e separati da terreni non costruiti, parcheggi, piazzali, tratti di urbanizzazione germinale dagli usi incerti i quali, all’opposto degli spazi pubblici di relazione dei tessuti urbani, che hanno il compito di articolare tra loro gli insediamenti, sembrano invece avere ora il compito di distanziarli. Secondo punti di vista che il filosofo Paul Virilio definiva dromoscopici, ovvero dettati dall’esperienza percettiva della velocità, dell’erranza, essi possono infatti essere considerati privi di rilevanza, appunto perché non percepibili dallo sguardo rapido e sempre proiettato in avanti, nell’ “attesa della venuta di ciò che resta”. Una esperienza pacificata poiché, come abbiamo visto, radicalmente privatizzata e individualistica, dove si tende a soffocare nel rombo del motore e della radio il paesaggio sonoro uditivo, ad escludere ogni forma di promiscuità tattile col mondo sensibile e l’interazione sociale non regolata e controllata con gli altri. Spazi dove persino il tempo conosce una perdita di quella che Deleuze ebbe a chiamare Intensità.

“L’attesa della venuta di ciò che resta”: la “radicale inattenzione” dell’automoblista-abitante e il consumo di suolo nei contributi di Enzo Rossi e Sartore

Spunti, quelli sopra citati, giustapposti in una dialettica generale/locale con le inchieste puntuali e attente del nostro direttore Enzo Rossi, che sapeva avvalersi di contributi saggi e dallo sguardo amplio quali il Professore e urbanista Mariano Sartore dell’Università di Perugia, anch’egli prematuramente scomparso nel recente mese di Settembre, e le cui profonde analisi gettavano luce sulle dinamiche che spinsero decenni di amministrazioni a prediligere in maniera affrettata e manifesta modelli di sviluppo ad altissimo consumo di suolo e assecondare lo smantellamento sistematico dell’opzione del trasporto pubblico, fenomeno quest’ultimo per il quale provare stabilire un nesso di relazione causale con quanto appena documentato equivale a disquisire sulla sequenzialità di uovo o gallina: i luoghi divengono noti perché vengono da esperienze personali pratiche quanto contemplative, anche più esperienze dello stesso luogo misurate nel corso di una vita. «L’habitat umano – scrive Augustin Berque – è sempre e necessariamente sia di ordine ecologico che simbolico. È eco-simbolico.»  Per Heidegger un paese o una città sono opere d’arte nella misura in cui divengono «la concretizzazione di un modo di vivere la quotidianità, la materializzazione di una cultura, la manifestazione di una civiltà che ancora ci parla».

Sulla scia di queste analisi nacque proprio nel 2009 il corpo della mia allora tesi di laura magistrale, “La Valle scomparsa – Spazio e tempospazio dell’esistenza Automobile nella campagna urbanizzata italiana”, dissertazione mossa dall’utopia di de-privatizzare e ri-affrancare le modalità (la percezione), l’oggetto (il territorio) ed il soggetto (l’abitante del territorio) dell’esperienza quotidiana del paesaggio, spezzando la catena sistemica che vuole lo spazio reso iposignificante dall’incuria delle istanze decisionali, impotenti poiché democraticamente assoggettate al pregiudizio economicista, liberista e dromocratico – simboleggiato dallo strapotere quotidianamente esercitato sul nostro esserci-nel-mondo dall’automobile – di chi nello spazio risiede e ne tollera una tale iposignificanza, alimentandola attraverso la «radicale inattenzione». Un’iposignificanza che consiste nella banalizzazione del paesaggio (pubblico) a causa della ripetitività, della riproducibilità e soprattutto dell’atemporalità dello spazio privato di un abitacolo, che fa insorgere disaffezione e indifferenza verso lo spazio pubblico che ci ospita.

Un’opera Anacronistica e insostenibile

La nuova campagna urbanizzata post-Duemari si andrebbe dunque a plasmare così anche in senso est-ovest, occupando i campi coltivati, in aperto anacronismo e controsenso, con quanto il quindicennio post-crisi 2008 ha poi evidentemente palesato: lo stallo sostanziale dell’edilizia. Una paralisi – per molti versi auspicabile ed opportuna – che ha fatto seguito a quella stagione che proprio il nostro Enzo Rossi ha saputo denunciare con forza argomentativa, ovvero il precedente già citato cinquantennio di consumo di suolo predatorio, e nel corso degli anni progressivamente sempre più iperspeculativo, basato sull’idea di mettere a frutto da parte di alcuni spregiudicati impresari locali potenziali esternalità nascenti. Il decennio finale e cuspidale di questa epoca, corrispondente grosso modo agli anni ’00 di questo attuale e schizofrenico Secolo, ha visto il nostro paesaggio cospargersi di edificati ben più fatiscenti e obsoleti di quanto il mileu edilizio locale aveva concepito nei precedenti secoli: una sequela straniante di entrée de villées, capannoni, rimesse, aree della logistica e di nuove centralità commerciali e dei servizi. Tendenza repentinamente dissolta, ma niente affatto risolta, allo scoppio della bolla globale di tre lustri fa; se si eccettua il costante ridisegnarsi ancora fagocitante delle aree di svincolo biturgensi tra E45 e Statale Aretina  e della “Porta dell’Umbria” tifernate – di fatto gli unici due spazi che sembrano calamitare l’interesse degli investimenti della plutocrazia globale – per il resto l’inerzia percettiva, ovvero quel senso di radicale inattenzione che connotava il nostro muoversi lungo le traiettorie disegnate con quotidiana costanza, è divenuta in questo tempo catastrofico l’inerzia economica del paese e dell’Europa tutta, il suo crollo della produzione industriale e conseguentemente dell’imprescindibilità del trasporto su gomma, gli affannosi respiri mortali emessi dal comparto dell’automotive, la bolla energetica e l’incuria idro-geologica che fa il paio con l’angoscia climatica che sottende nascosta e lieve le nostre azioni e il manifestarsi rapidamente più frequente, capillare e prossimo degli stravolgimenti geosistemici. Le multicrisi globali i cui nodi giungono al pettine della politica e dell’economia, anche e soprattuto su scala locale, sembrano in quest’ultimo quindicennio aver salvato la traccia ultima dello spazio minore della ruralità mezzadrile. E la logica dell’erranza, del tempo lineare del tempo “in anticipo su se stesso” dettato dal pregiudizio economicista del “tempo = denaro” rendono ridicola, quasi macchiettistica, la nostra anacronistica esigenza di ridurre di venti minuti il nostro tempo di percorrenza per raggiungere Fossombrone. Sempre poi che non li si debba trascorrere irradiati dal rosso del semaforo del senso unico alternato, scrollando i reel di Instagram, all’imbocco della Galleria della Guinza.

Collasso dei luoghi, collasso della civiltà?

La Valle scomparsa, testo figlio proprio in quel sentimento catastrofico, riletto a distanza di proprio sedici anni dalla sua stesura, risulta la testimonianza, forse ingenua nel suo intento di tenere tutto insieme, di un’era cuspidale del turbocapitalismo edilizio, che ambiva a mettere in una dialettica di tipo strutturalista contributi di natura epistemologica diversa, nella convinzione che percezione, fenomenologia, scienze sociali e letture macroeconomiche possano convergere e rafforzarsi. Nel finale della trattazione, esplicitata la dinamica che rende il territorio uno «Pseudo-territorio, che non esiste più se non come periferia dell’erranza accelerata, dove il luogo geografico non è più l’assise dell’esperienza umana, ma un polo da raggiungere nell’esercizio dell’andata e del ritorno di questa incontinenza veicolare», si rimanda al visionario e controverso saggio The collapse of the complex societies dello storico Joseph Tainter, che negli scorsi anni Settanta ipotizzò che le società umane, superata in eccesso una certa soglia di dinamismo, tendono a divenire improvvisamente più piccole, più semplici, meno stratificate, con minore specializzazione del lavoro e meno centralizzate. Crollano i livelli degli scambi commerciali; malattie, e guerre, carestie e cataclismi decimano la popolazioni. Le arti e la tecnica conoscono un declino. Facendo riferimento ad esempio alle popolazioni Anasazi che nei secoli che vanno dal V al XVI d.c. popolavano il bacino idrografico del Chaco, un canyon nell’odierno stato del New Mexico di 19 km di lunghezza, misura beffardamente analoga alla città-strada Altotiberina, Tainter rileva come l’implementazione di sempre nuove vie di comunicazione in sempre più stretta prossimità le une alle altre abbia prosciugato la massima risorsa di quel sistema socio-politico, ovvero la diversità interna, ossia le peculiarità geografiche e culturali dei diversi luoghi di questa valle ora scomparsa.  L’efficienza complessiva del sistema, che fino ad un determinato momento sembrava giovarsi della mobilità interna, raggiunse dimensioni ipertrofiche relativamente alle difficoltà ambientali e la portata demografica di quel territorio. Il risultato di ciò fu che le tarde comunità del Chaco cominciarono ad uniformare le proprie colture, mettendo a rischio la loro capacità di sopperire agli incombenti cambiamenti climatici, impoverendo l’alimentazione e soprattutto, in un regime di scarsità di risorse, principiarono a costruire edifici sempre più grandi e costosi per competere gli uni con gli altri in prestigio, provocando un eccessivo sfruttamento di risorse naturali e una inesorabile spoliazione dell’ambiente. Fino a che un’ultima violenta siccità in quella terra oggi arida non determinò una pressoché totale estinzione di quella civiltà.

Per rafforzare il nostro senso dell’Io ed il suo rapporto col mondo e la società, dovremmo secondo il geniale e talvolta inascoltato teorico dell’architettura della mobilità americano Kevin Lynch «aumentare l’estensione e il realismo della nostra immagine del futuro e soprattutto affinare il senso del futuro di medio periodo»; rompere cioè l’incantesimo del “tempo in anticipo su se stesso”, che ci ha reso guidatori in transito, assenti. Vivendo nella durata il nostro stesso tempo, a piedi, in treno, in bicicletta iniziamo a rompere l’inerzia e risvegliare l’habitus, cioè a sviluppare  una nuova attenzione per il mondo. In questo senso dobbiamo ricercare soluzioni anche individuali, esperienze estetiche ed esistenziali del tutto soggettive, però condivisibili in uno sfondo di intersoggettività, per aiutarci a cogliere un’immagine dei nostri luoghi coerente con la nostra emotività e la nostra memoria, con le nostre conoscenze oggettive, ma anche con il nostro corpo ed il nostro organismo; concedersi degli squarci della nostra routine pseudociclica in cui ricercare «l’intera pienezza della vita in un momento; qui ed ora, passato, presente e avvenire».

di Giacomo Barni


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