Venerdì, 29 Marzo 2024

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Una guerra dimenticata

Intervista ad Alberto Cavallini, comboniano, direttore della rivista "Nigrizia"

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Il Corno d’Africa vive una condizione di instabilità tra conflitti etnici e contrasti politici. Chiediamo l’aiuto di Giuseppe Cavallini, direttore di "Nigrizia", che ha vissuto molto tempo in Etiopia.

Nel 2020 è scoppiata la guerra tra il governo centrale di Addis Abeba e il Fronte di Liberazione del Tigray. Quali sono a suo parere le cause del conflitto?

«All’inizio si è trattato della posizione del viceministro di Abiy Ahmed che si è visto sfuggire il potere che i tigrini avevano conquistato nelle lotte contro Menghistu. Aveva la sensazione che il presidente si appoggiasse sugli Oromo e sugli Amara e decise di ritirarsi in Tigray, dove aveva organizzato l’esercito in maniera molto solida. Quando un battaglione di Addis Abeba fu attaccato dai tigrini iniziò lo scontro».

Il missionario spiega un altro motivo del conflitto: «I capi del Tigray decisero di indire le elezioni regionali, che invece il Governo aveva posticipato di un anno a causa del Covid. Abiy Ahmed rispose con la guerra mobilitando l’esercito ed è stata una carneficina che è durata due anni. E poi sono entrati gli eritrei a fianco di Addis Abeba e il conflitto si è internazionalizzato».

In che modo?

«A favore del Tigray si sono schierati gli Stati Uniti e alcuni paesi arabi che hanno fornito armi ai tigrini. L’esercito etiope cominciò a combattere su diversi fronti e c’è stato un momento in cui i tigrini avrebbero potuto giungere fino alla capitale. Tentativo sventato e si ritirarono di nuovo in Tigray. Si è verificato così un indebolimento del Fronte di Liberazione del Tigray e con l’aiuto internazionale e la spinta degli Stati Uniti si è giunti alle trattative di pace prima in Sud Africa e poi a Nairobi in Kenya».

Da allora la situazione è cambiata?

«La regione, che fino ad allora era completamente chiusa a livello informativo con il resto del mondo, ha cominciato ad aprirsi. Circolano maggiori notizie su quello che è accaduto in Tigray, come ha denunciato il vescovo di Adigrat che ha parlato di genocidio. Un disastro, con 200 mila morti, 2 milioni di rifugiati, una situazione umanitaria al collasso».

A subire l’impatto della guerra è stata soprattutto la popolazione civile. Il governo etiope con l’appoggio delle milizie eritree ha devastato il Tigray. Ci può descrivere la condizione umana del Paese?

una guerra dimenticata altrapagina marzo 2023 1«Dopo lo scoppio della guerra cominciano a essere distrutte tutte le strutture pubbliche, dalle scuole agli ospedali, creando una situazione umana così tragica che 60 mila tigrini raggiunsero subito il Sudan. Quando il conflitto si ampliò, migliaia di persone fuggirono nelle zone limitrofe dell’Amara e del Far,  i combattimenti provocarono un disastro umanitario senza precedenti e la gente fu costretta alla fame».

Adesso la situazione è migliorata dopo gli accordi di pace?

«Cominciano ad arrivare le informazioni, ma la gente ha sofferto moltissimo e milioni di persone sopravvivono perché possono usufruire degli aiuti umanitari. Anche i nostri confratelli comboniani aiutano concretamente i tigrini con cibo e materiali, ma fanno molta fatica a raggiungere le zone rurali, perché gli eritrei non vogliono lasciare il paese. Alcuni contingenti sono rientrati in Eritrea, ma molti territori del Tigray sono ancora occupati dalle forze eritree. È una situazione molto difficile soprattutto negli ospedali, dove c’è carenza di medicine causando morti che potevano essere evitati. Attualmente pare che la situazione stia migliorando e il conflitto sia sospeso».

Gli accordi di pace tra il governo etiope e i tigrini svoltisi in Kenya dureranno nel tempo o saranno troppo fragili e sottoposti a cambiamenti politici improvvisi?

«L’esercito del Tigray si è trovato in una situazione di debolezza e su pressione degli Stati Uniti sono stati costretti a sedere al tavolo delle trattative, con il compromesso che sarebbero rimasti al potere, anche se il governo li aveva iscritti nella lista dei terroristi. Addis Abeba ha fatto un po’ marcia indietro, riconoscendo la possibilità di esercitare l’autorità persino dal punto di vista politico, però ha riformulato la gestione politica della regione mandando i suoi uomini. La coalizione continua a riprendere il suo lavoro in Tigray e il governo centrale non ha alcun interesse ad alimentare il conflitto con i tigrini. Sembra che la situazione si stia stabilizzando e ci siano buone speranze di soluzione».

Il governo di Abiy Ahmed si trova di fronte alla sollevazione degli Oromo. Può preludere alla dissoluzione del governo federale etiope?

«Gli Oromo sono la grande maggioranza degli abitanti dell’Etiopia e sono consapevoli di essere stati emarginati nell’ambito dell’impero. Nel tempo hanno costruito la loro élite fino ad esprimere un uomo come Ahmed, di doppia nazionalità, nel quale hanno riposto una grandissima speranza. Uno degli errori del Presidente è stato quello di far rientrare tutti i gruppi politici, sia quelli che cercavano la pace sia quelli armati legati agli Oromo. Una parte ha deciso di entrare nella coalizione di governo, l’altra non ha voluto cedere le armi e si sono rintanati nelle foreste, si sono riorganizzati, hanno scatenato il conflitto e si sono alleati strategicamente con i tigrini nel tentativo di deporre Abiy Ahmed o di creare uno stato indipendente, la cosìddetta Oromia».

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Qual è la preoccupazione del Governo?

«La presenza dei contingenti Oromo in aperto contrasto con Addis Abeba. Ahmed si trova in una situazione molto critica perché gli Oromo lo accusano di averli traditi passando dalla parte degli Amara nella guerra contro il Tigray, gli Amara gli rinfacciano di voler fare gli interessi degli Oromo. Si aggiungono il conflitto scatenato in Tigray da parte del governo, per cui la posizione di Abiy Ahmed appare molto complessa, con gruppi etnici diversificati, e può preludere alla dissoluzione di questa parte regionale. Eppure ci sono spiragli di accordi che il governo pare di non poter accettare. È un gioco politico per conquistare il potere e magari rimpiazzare Ahmed».

L’Etiopia deve fare i conti col problema del Nilo. Come si comportano i paesi confinanti, da cui dipende la loro sussistenza?

«I paesi interessati all’uso delle acque del Nilo, il Sudan e l’Egitto, si erano coalizzati contro Addis Abeba minacciando di bombardare la grande diga in costruzione sul lago Tana. Dopo l’incontro con Abiy Ahmed, il Sudan ha appoggiato nuovamente il progetto, pensando che non vada a detrimento del paese, mentre l’Egitto si può trovare in una grande crisi idrica. Molti agricoltori egiziani sono molto preoccupati dal graduale calo del livello delle acque del Nilo. Per il governo etiope non ci saranno conseguenze per i paesi toccati dal Nilo e, a diga ultimata, ne beneficeranno tutti, perché arresteranno le inondazioni che ogni anno creano enormi difficoltà sia in Sudan che in Sud Sudan. Per il momento non si capisce se l’Egitto continuerà nella politica di intransigenza per difendere l’acqua del Nilo o si è impegolato invece in altre situazioni critiche da cui non riesce a distaccarsi, come quella libica». ◘

Di Achille Rossi


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