Lettere in redazione.
Con il motto le roi est mort, vive le roi la monarchia francese era solita annunciare al popolo contemporaneamente la morte del re e l’avvento del suo successore, esprimendo così la continuità dell’istituto.
Parto da questa considerazione per riflettere sull’interessante articolo di Pier Giorgio Lignani, uscito nello scorso numero de l’altrapagina, col quale si dava atto delle trasformazioni economiche, sociali e culturali che hanno investito il nostro Paese negli ultimi 50 anni e che hanno svuotato i centri storici delle cittadine di provincia, non più in grado di attrarre o stare al passo con il cambiamento del modello di società.
La questione è certamente assai complessa e non facilmente risolvibile, ma provo a fornire un altro punto di vista.
È un dato di fatto incontestabile che la Città di Castello brulicante di botteghe artigiane, piccoli negozi, persone intente a socializzare, sia un lontano ricordo. Le vecchie foto che mostrano il centro pieno di vita, fin nei suoi vicoli più stretti, le attività che fiorivano, la gente per strada, raffigurano un mondo che non esiste più, che molti di noi rimpiangono e che ci insinua il sospetto che, date le condizioni attuali, la città di un tempo sia morta, per sempre.
Inutile dire che le cause sono molteplici. Pier Giorgio ha fatto riferimento alle trasformazioni economico sociali, che sono sotto gli occhi di tutti, ma non tralascerei l’inverno demografico che si è abbattuto sull’Italia, sulla Regione e su Città di Castello in particolare (che ha perso circa duemila residenti in pochi anni), che ha certamente contribuito a spopolare la città e, soprattutto, il suo centro storico.
Il punto è se questo declino si configuri come un processo irreversibile e inarrestabile, oppure se siamo ancora in tempo (e in grado) di fermare la deriva. Si è soliti obiettare che i centri delle città, nel corso dei secoli, sono cambiati, con l’allargamento delle mura urbiche e le trasformazioni economico sociali; quindi – ed è la conclusione cui giunge l’obiezione – è nell’ordine delle cose che anche il centro vivo della nostra città possa trasferirsi in quella che, nata come zona industriale, sia stata convertita in fretta e furia in zona commerciale, con i problemi di traffico che sono sotto gli occhi di tutti.
Senza ripercorrere gli errori di scelte politiche strategiche, forse troppo disinvolte e poco meditate nelle loro ricadute, la questione è, oggi, come rimediare alla desertificazione del centro storico.
La risposta può essere una e una sola: rendere attraente la vita nel centro della città. Vivere all’interno delle mura urbiche ha certamente le sue controindicazioni: problemi di parcheggio, spazi stretti, mancanza di servizi e alloggi adeguati, atti vandalici; ma ci sono dei punti di forza.
Il senso di comunità, la convivialità, la conversazione, la vita sociale, l’integrazione, la coesione, sono attrattive cittadine che i non luoghi (centri commerciali, ipermercati, aree industriali) non potranno mai garantire. Le piazze, i palazzi storici, le chiese, i monumenti, il patrimonio culturale in genere hanno un valore civico insostituibile, costituiscono luoghi d’incontro e creano essi stessi la comunità dei cittadini, laddove la cittadinanza è condizione morale, intellettuale e anche politica.
Premesso dunque che la vita sociale si esplica con maggiore compiutezza nei centri storici, occorre che gli enunciati teorici si traducano in azioni concrete a favore dei residenti.
L’elenco di cose da fare, nell’immediato, è risaputo: implementazione degli arredi urbani, creazione di aree pedonali e ciclabili, massima cura del verde, contrasto all’incuria dei privati, pulizia e corretta gestione di rifiuti, attenzione alla pubblica sicurezza, creazione di luoghi di aggregazione, offerte culturali.
È necessario riappropriarsi immediatamente degli spazi e degli edifici pubblici e, se da un lato la rarefazione del commercio ha svuotato di attività commerciali il centro storico, si riempiano gli spazi vuoti (soprattutto i tanti immobili di proprietà comunale) di luoghi dove sia data la possibilità di fare cultura, di suonare, esporre quadri, svolgere attività artistica, con occhio attento ai giovani che abbiano voglia di mettersi in gioco, al di fuori delle “riserve indiane” che gli adulti miopi gli hanno lasciato.
Si consideri inoltre che l’Umbria e l’Alta Valle del Tevere stanno godendo di grande considerazione da parte del turismo internazionale, un turismo colto, rispettoso, fatto spesso di gesti lenti: sono sempre più numerosi i viaggiatori che a piedi o in bicicletta percorrono le nostre strade, che vengono attratti dalla nostra cultura e dal nostro modello di vita, persone alle quali dobbiamo offrire non solo quinte sceniche, ma città vive. Ripensiamo quindi il centro storico come luogo di socialità e accoglienza, di attrattive culturali, per i residenti e per i sempre più numerosi turisti che visitano i nostri borghi (spesso comprando anche seconde case nella vallata).
In quest’ottica, il sostegno alle attività artigiane e commerciali - che eroicamente resistono nel centro storico - deve diventare uno dei punti chiave nell’agenda dell’Amministrazione, perché è anche vero che non dobbiamo demonizzare gli aspetti più strettamente economici della questione, fermo restando che un negozio che apre i battenti assicura un occhio vigile sulla città (oltre che la sua tenuta sociale).
Infine un’ultima considerazione. Chi amministra questa città deve amarla. Le carriere politiche, le traiettorie personali, le pur legittime aspirazioni, siano il naturale punto di ricaduta di una corretta ed efficiente amministrazione, si valorizzino le (tante) competenze e non si usino la città e le sue risorse come pura e semplice merce di scambio.
di Simone Salcerini