Martedì, 19 Marzo 2024

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Il dialetto è morto. Lunga vita al dialetto

Rubrica: di(a)lettiamoci. Parlate castellane e dintorni di Matteo Nunzi.

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Il testo originale completo in dialetto luggnanese sarà consultabile nel sito www.voxminima.it

Con il primo articolo dell’anno voglio guardare avanti… tanto avanti! Qualche tempo fa (nel libro Fòjji), mi ero immaginato il mondo nel 3030, e a un bimbo di quell’epoca avevo fatto dire ciò che mi piacerebbe s’avveri pure per le lingue: «Adè guäṡi tųtti pàrlono almanco sitt’òtto lëngue, e m‑a chjì‑n‑che ne sà dùe o trë sole el cojònono. [...] Nn ë rädo che uno sà la lëngua de ’n paiṡino de men de mįlle abitanti de quelaltra parte del mŏndo; guäṡi che se fà a gara per vedè quëllo che sà la piŏ lëngua particuoläre. Ìo v’ò scrįtto ntu la mi prifirita, che n sò si c’ era da‑n‑già ai vòstri tèmpi, ntuttimodi v’ò voltäto gnicosa n italiäno ncò, che, de chel che sò, era la lëngua principäle ‒ quëlla sola praticamënte ‒ che v’anseggnéono ntu la scola, dele vòstre parti, vèrso el 2020 (sta cosa m‑a nojaltri ci päre tanta bųffa, de na lëngua sola!)». Per dirla in italiano: «Adesso quasi tutti parlano almeno setto o otto lingue, e chi ne sa soltanto due o tre viene preso in giro. […] Non è raro che una persona conosca la lingua di un paesino di neanche mille abitanti dall’altra parte del mondo; si fa quasi a gara a chi conosce la lingua più particolare. Io vi ho scritto nella mia preferita, che non so se già c’era alla vostra epoca, in ogni caso vi ho tradotto tutto anche in italiano che, da quello che so, era la lingua principale ‒ praticamente la sola ‒ che veniva insegnata a scuola, nel vostro territorio, verso il 2020 (questa cosa di una lingua sola ci sembra davvero strana!)».

Ci arriveremo a questa situazione? Vediamo. Intanto è indispensabile diffidare di coloro che pensano che il dialetto sia «immortale», o che al massimo si evolva: basta sentire la differenza che c’è tra nonni e nipoti per rendersi conto che non è così. In effetti, fra i ragazzi di vent’anni o meno, quasi nessuno sa parlare più alla maniera del posto (o comunque lo fa non bene), e non per «colpa» personale, evidentemente, ma perché nessun adulto all’intorno ha ritenuto giusto che il dialetto fosse trasmesso, segnandone potenzialmente la sorte.

Come si può fare, allora? Occorre cambiare atteggiamento, ci dicono gli studiosi. Primo punto: non mettiamo le lingue in guerra. Il dialetto non è contro l’italiano, né l’inglese contro l’italiano e il dialetto. Lo scontro, casomai, è tra gruppi di persone (gruppi sociali, economici, politici) che nel loro agire, e con i loro pregiudizi, arrecano danno alle lingue, ma per motivi che con la glottologia non hanno nulla a che vedere. Quello che avviene, per esempio, è che un idioma goda di scarso prestigio perché i suoi utilizzatori principali appartengono a un gruppo considerato di basso livello sociale, oppure perché il medesimo idioma non sembra «utile», o è un ostacolo al realizzarsi delle mire di una qualche ideologia, quindi è tollerato solo se rimane nel suo «angolino». Inutile dire che, in questi scontri, ad avere la peggio sono le lingue più piccole e con meno mezzi (come sono quelle che chiamiamo dialetti).

Secondo punto: non confiniamo le lingue in un cassetto, nei musei o nelle barzellette! Certo, può sembrare che i dialetti vengano «salvati» riponendoli da qualche parte, scrivendo un libro o mettendo in scena una recita ogni tanto, ma non funziona così. Non solo ciò non basta, ma talvolta è la causa stessa della morte delle lingue! È così se crediamo –come detto tempo addietro– che quanto d’interessante c’è nel dialetto risieda nel fatto d’essere «di una volta» (trattandolo come morto anche quando ancora non lo è), o se utilizziamo la parlata locale solo per veicolare un’identità sbiadita (e non sempre fatta di cose buone). È ovvio che non si sta dicendo di non scrivere libri, fare recite o studiare il dialetto «dall’alto», perché è vero il contrario, ma lo scrivere, il recitare e lo studiare devono mostrare intenzioni adeguate. Vale a dire: bisogna imparare a scrivere (e parlare) nella nostra lingua locale d’ogni argomento, senza paure né complessi; bisogna inoltre riconoscerle piena dignità e studiarla adoperando tutti i mezzi oggi disponibili (visto che finora, a dirla tutta, non se n’è avuta una molto elevata consapevolezza generale).

Da qui può scaturire un terzo punto: quello che conta di più è da un lato la rete e dall’altro la coscienza. Vuol dire che se non c’è un sistema di persone che usano un codice linguistico, o che almeno sarebbero disposte a farlo, quel codice non esiste (per quanto possiamo dibatterne in astratto); e se anche utilizziamo un idioma, ma in maniera grossolana e senza conoscerlo a fondo, questo finirà per essere «mangiato» da quelli più grandi.

Quanto qui affermato viene prima di leggi e quant’altro, e riassumendo si potrebbe dire che per donare «lunga vita» alle nostre lingue piccole è necessario questo cambiamento: passare dal ricordo e la nostalgia, alla pratica quotidiana e la conoscenza, senza retoriche; per farlo, poi, occorrono strumenti moderni, culturali e scientifici, poiché quelli del passato non sono più sufficienti (e se alle istituzioni tale patrimonio non interessa, dobbiamo occuparcene da noi stessi). La speranza, per chiudere il cerchio, viene dal fatto che a comprendere meglio tali argomenti sono proprio alcuni dei giovani d’adesso, e se nel 3030 si giungerà allo scenario che mi sono immaginato, saranno loro quelli da ringraziare.*

* Alcuni degli argomentiche qui ho (molto) semplificato, prendono spunto dall’incontro con l’interessantissimo primo Quaderno del seminario su La lingua e la differenza dell’Università degli studi di Siena,a cura di Luciano Giannelli, 1995. ◘

di Matteo Nunzi


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