Rubrica. Con gli occhi di Alice di Daniela Mariotti.
Ogni tanto qualcuno ci prova o ci riprova a fare l’ “elogio del fallimento”. Ricordo Pasolini qualche decennio fa. Più recentemente Massimo Recalcati è ritornato sull’argomento in un saggio con questo titolo. Ma non c’è bisogno di scomodare gli intellettuali per sapere che il fallimento, anche ripetuto, molto spesso è una tappa inevitabile della vita, una esperienza che non può essere considerata in assoluto, scissa dal contesto più articolato dell’intera esistenza. In verità, ogni fallimento è una “porta stretta” attraverso la quale è possibile una maggiore conoscenza di noi stessi. Ogni fallimento contiene un insegnamento prezioso, a volte indispensabile, per una riuscita successiva.
È un fatto tuttavia che il nostro tempo sembra mancare completamente di questo sguardo. I mass media inneggiano alla performance come valore supremo della ricchezza e dell'affermazione di sé al di sopra di tutto e di tutti. Mi fa sempre molta impressione quando si dice di un personaggio pubblico che muore dopo lunga malattia, (ma succede nella ordinarietà anche per le persone comuni), che “è stato sconfitto”, o “non ce l’ha fatta”…, aggiungendo però che “ha lottato strenuamente” o che ha dato prova di un “coraggio esemplare”. Da ultimo Sinisa Mihajlovic, morto il mese scorso, a causa di una leucemia: un eroe, un guerriero valoroso…
Al di là delle dichiarazioni del politically correct, la retorica dello scontro e della guerra che utilizziamo così volentieri nel nostro linguaggio, è il paradigma della visione del mondo che ci viene proposta e imposta ogni giorno. La competizione e la vittoria conseguente sembrano la via maestra della felicità. E non solo in politica, dove il confronto e la corsa per il potere sono diventati durissimi, una lotta accanita che si gioca con colpi sempre più bassi. In ogni ambito del vivere sociale - nel lavoro, nello sport, nel tempo libero - e della vita privata bisogna impegnarsi e vincere (Per chi non lo sapesse esistono corsi di formazione per imparare l’ “amore sano”, trovare l’anima gemella e “sconfiggere la solitudine”). In nome del profitto, del successo ad ogni costo si vuole persuadere uomini e donne che la vita, grazie allo sforzo e alla perseveranza, può essere lieta, priva della frustrazione e della perdita. Secondo questo codice antropologico, che sembra plasmato dall’etica del neoliberismo che domina economia, società e cultura, la malattia e la morte sono inevitabilmente “inciampi” non facilmente integrabili, perciò destinati a essere esorcizzati o rimossi, oppure convertiti secondo la disciplina imperante. Il malato, in particolare, deve proporsi l’obiettivo di lottare sempre e comunque, e di vincere per guadagnarsi il diritto alla salute e alla vita.
C’è qualcosa di osceno in questo stravolgimento del mistero del male e della morte, in questo voler ottimizzare anche il dolore e i sentimenti più profondi che sfuggono per definizione a ogni razionalità. Mentre la via della guarigione a volte si trova nell'accoglienza di un male che è nell’anima prima che nel corpo. Nel suo delirio di onnipotenza la dittatura del capitalismo non contempla il limite che ci determina come esseri umani; non ammette il diritto di arrendersi o di lottare, di maledire o di abbracciare la propria malattia e la propria morte, al di là di ogni giudizio. Come se nella crisi dell’Occidente non fosse paradossalmente la consapevolezza uno dei segmenti perduti della nostra umanità. ◘
di Daniela Mariotti