Giovedì, 28 Marzo 2024

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Prima i soldi. poi il pianeta. semmai l'africa

Intervento di FILIPPO IVARDI GANAPINI, comboniano, giornalista.

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Mentre a Sharm el Sheikh, nota località turistica per ricchi, dal 6 al 18 novembre scorso, 197 delegazioni mondiali cercavano un accordo nella ventisettesima Conferenza Generale sul Clima delle Nazioni Unite, la COP 27, per salvare il pianeta, nella terra dei Faraoni 55 imprese multinazionali stavano svolgendo nuove prospezioni per estrarre petrolio e gas, sempre più ricercati dentro il vortice della crisi energetica mondiale.

In tutto il continente africano oltre 200 colossi energetici, compagnie petrolifere, del gas e del carbone, con sedi nei nord del mondo, setacciano a tappeto ogni angolo possibile per il business del momento: l’energia inquinante. Le rinnovabili, per chi guarda solo ai soldi e al mantenimento dello stile di vita di chi è ricco, possono aspettare. Tutti corrono allora verso la ricerca dei combustibili fossili, un mercato in grande espansione in Africa, finanziato da investitori stranieri, banche commerciali e assicuratori. In testa Citi Bank, JpMorgan, BNP Paribas, Bank of America. Ma anche Unicredit e Intesa San Paolo, che non si fanno scrupoli a sostenere la ricerca di nuove vie energetiche nel momento in cui gli italiani, con la guerra in Ucraina e la rottura della fornitura russa, hanno sete di gas per l’inverno.

Giusto per restare dalle nostre parti, l’Eni fa la parte da leone proprio nell’Egitto di Al Sisi, con oltre il 20% delle sue riserve di gas in quella terra, e non è un caso che per salvaguardare gli affari del Belpaese la premier Meloni, nel suo recente incontro con il presidente africano, abbia tutelato gli interessi italiani sul gas e sul trattenimento dei migranti (notevole l’afflusso dall’Egitto negli ultimi mesi). Nessuna parola sulle vicende Regeni e Zaki e sui diritti umani calpestati in Egitto, sugli oltre 60mila prigionieri politici. Uno su tutti, nel silenzio mondiale, ha però prestato il suo corpo alla protesta: Alaa Abdel Fattah, attivista musulmano egiziano che dal carcere ha scelto la strada dello sciopero della fame da oltre duecento giorni e, dal 6 novembre, quello della sete.

In Africa in 48 Paesi su 54 si scava senza pietà; a volte bastano laute mance agli oligarchi al potere per far passare trivelle anche in aree naturalistiche o a ridosso di zone patrimonio dell’Unesco, come nella Repubblica Democratica del Congo, dove è in corso un progetto di ricerca ed estrazione petrolifera e di gas nella foresta tropicale della Cuvette Centrale. L’odore dei soldi trova sempre un varco, anche dentro l’irrespirabile aria non solo delle megalopoli ma anche, sempre più, delle campagne. Va a gonfie vele nel continente africano il mercato addirittura del carbone: 70 nuove miniere in 9 Paesi con il Sudafrica che, da solo, ne ha aperte 49!

Sono i numeri forniti dal Rapporto Chi sta finanziando l’esportazione dei combustibili fossili in Africa? preparato da oltre 30 ong africane che denunciano le violazioni dei diritti umani e i danni ambientali, e presentato nei giorni della Cop 27 per mettere in risalto le contraddizioni palesi di questo folle mondo, schiacciato sull’esigenza del momento presente senza pensare con lungimiranza all’orizzonte futuro.

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Questo rapporto, le marce dei Friday for Future, le incursioni di Extinction Rebellion nei musei (che certo fanno scalpore, ma forse provano a svegliarci dal salvaguardare anche l’arte del Creatore e non solo quella delle opere dell’uomo) – i boicottaggi; tanti sono i contributi preziosi di quegli attivisti che lavorano sul campo –, pagano le conseguenze delle non scelte dei Paesi che sono sempre più schiavi degli interessi finanziari dei grandi colossi mondiali. Tutte iniziative che ormai avvengono al di fuori delle stanze delle Nazioni Unite, che non portano a nulla. Lo hanno capito Greta Thunberg, Vanessa Nakate e tanti altri attivisti per il clima che ormai non vi partecipano più, stanchi dei bla bla dei grandi. Mentre dentro quei corridoi aumentano i lobbisti (del 25% rispetto alla COP 26 di Glasgow), i veri vincitori della COP 27: 600 a difendere gli interessi delle multinazionali dell’estrazione, della lavorazione e della commercializzazione dei combustibili fossili. Sono loro che hanno fatto di tutto, con la sponda del governo egiziano, per ritardare ancora di un anno le riduzioni dei gas serra e allontanarsi sempre di più dagli obiettivi di Parigi del 2015, di contenere l’aumento della temperatura globale a 1.5 C° entro il 2100. Oggi siamo già a + 1.2 C° rispetto ai livelli preindustriali e, correndo così, rischiamo entro la fine del secolo di arrivare a un aumento di 2.8 C°, mettendo a repentaglio la vita in tante aree del pianeta. Soprattutto in Africa, dove aumentano i migranti climatici, i campi non ricevono più la pioggia con regolarità per la semina, i terreni diventano sempre più acidi e incoltivabili, i deserti avanzano e dove eventi estremi si stanno moltiplicando. In certe zone, come Nigeria e Sudan, le recenti inondazioni hanno recato impressionanti danni a case e infrastrutture, mentre la siccità del Corno d’Africa e del sud del Madagascar sta mietendo vittime e gli aiuti umanitari faticano ad arrivare. Come arrivano a stento quelli promessi nelle varie assise dell’Onu dai Paesi più ricchi ai più poveri, come ripari ai danni ambientali provocati da chi inquina di più. Nelle loro magre tasche arrivano, se arrivano, le briciole dei 100 miliardi di dollari promessi, ogni anno, dal 2020. La stessa Africa, responsabile del 3.8% delle emissioni di anidride carbonica mondiali, è il continente che più paga le conseguenze del riscaldamento globale, ma che proprio dai combustibili fossili ricava le risorse indispensabili al suo sviluppo. Un cane che si morde la coda. Per questa ragione le nazioni del continente più giovane al mondo, forti delle loro innumerevoli riserve ancora non pienamente utilizzate, hanno fatto fronte comune, a Sharm el Sheik, a sostegno dello sfruttamento di petrolio, gas e carbone per garantire il loro sviluppo interno (ricordiamo che oltre 600 milioni vivono in Africa senza elettricità), e soprattutto per l’export, visto che quelle risorse andranno a gonfiare la crescita di chi già corre. Ad esempio l’89% della nuova capacità di gas naturale liquefatto in Africa è prevista per l’export. Posizione che fa comodo ai partner che dall’Europa, Asia e Americhe cercano disperatamente altre risorse energetiche ma che in Africa significa spesso conflitti per l’accaparramento di quelle risorse, interventi jihadisti per seminare terrore e disordine al fine di controllare e rubare meglio in quei territori, e anche fondi destinati allo sviluppo dei Paesi transitati invece nei conti delle famiglie legate alle oligarchie al potere.

Al termine di una estenuante e frenetica lotta fino all’ultimo minuto, tra i Paesi del Nord e del Sud del Mondo si è almeno riusciti, nella COP 27, a ottenere un meccanismo di compensazione per i Paesi più poveri in riferimento alla giustizia climatica

“Ma come?” viene da chiederci. Il Segretario generale delle Nazioni Unite si sgola sul palcoscenico mondiale per dire che “come umanità stiamo correndo verso l’inferno”, e altri continuano indisturbati a deturpare Madre Terra soffocata nel respiro!? Proprio così, sotto gli occhi indisturbati di tutti. Continuando così, con la corsa all’impazzata verso i combustibili fossili altamente inquinanti, nel 2030, invece di dimezzare le emissioni di anidride carbonica, come previsto dagli obiettivi del Millennio, addirittura avremo un aumento del 10.6%. Siamo sull’orlo del baratro! La difesa degli stili di vita di chi ha raggiunto un certo essere-bene materiale, esteriore ed economico (non certo il benessere della persona che sta bene, dentro, prima di tutto!) sembra sempre più blindata, e la coscienza mondiale è lontana dal poter fermare il potere della finanza imperante, che si difende con le armi.

Tornano alla mente le parole nette di Papa Francesco: “Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti”. Toglierei il “sembrano”. Il tempo è scaduto! Ora cambiare radicalmente rotta, abbracciare con urgenza l’ecologia integrale, umana, condivisa, partecipata e che non lascia indietro nessuno è l’unica via, certo molto dissestata, per rimanerne davvero fuori. ◘

di Filippo Ivadi Ganapini


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