Intervento di FRANCESCO GESUALDI, giornalista, ex allievo di don Milani
Il 12 dicembre di sette anni fa, a Parigi veniva firmato un accordo per contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 C, rispetto ai livelli pre-industriali, possibilmente non oltre 1,5 C. L’accordo è stato firmato da 197 nazioni, inclusa l’Unione Europea, mentre è stato ratificato da 190 Stati.
L’accordo è un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite meccanismi di persuasione morale e politica. In effetti l’Accordo di Parigi, al di là dell’obiettivo generale, non impone ai singoli stati adempimenti obbligatori. Ogni Paese che ratifica l’accordo è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in maniera volontaria. È previsto un meccanismo per forzare i Paesi a stabilire i propri obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati non venissero soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema name and shame, la compilazione di una sorta di lista “della vergogna” in cui inserire i Paesi inadempienti.
A oggi, 190 Paesi, hanno presentato i loro obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra (in sigla NDC, Nationally determined contributions). Ma l’Emissions Gap Report 2022, lo studio realizzato dalle Nazioni Unite sugli impegni assunti dalle nazioni per contenere l’innalzamento della temperatura terrestre, non sparge ottimismo. Il rapporto ci informa che gli impegni assunti fino a oggi non sono sufficienti a raggiungere l’obiettivo di Parigi, ossia impedire alla temperatura terrestre di salire oltre 1,5 gradi centigradi. Per ottenere questo risultato gli Stati devono fare molto di più. Entro il 2030 devono abbattere le loro emissioni di un ulteriore 45% rispetto a ciò che hanno promesso, mentre attorno al 2050 le emissioni nette devono essere portate a zero. Se il tasso di riduzione di emissioni rimane quello attuale, la temperatura terrestre continuerà a crescere fino a registrare nel 2100 un aumento fra i 2,4 e i 2,8 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale. Con conseguenze drammatiche soprattutto per la fascia tropicale di Asia e Africa.
A peggiorare le cose c’è che l’ultima Conferenza fra le parti (Cop 27) che si è tenuta in Egitto per fare il punto della situazione e assumere decisioni utili a introdurre i dovuti correttivi, si è conclusa con un nulla di fatto: nessun impegno reale per ridurre il consumo di combustibili fossili e nessun impegno concreto per aumentare la dotazione finanziaria da mettere a disposizione dei Paesi più poveri per affrontare la transizione energetica e realizzare le opere necessarie a prevenire i danni derivanti dai cambiamenti climatici. Quanto alla richiesta avanzata dai Paesi più vulnerabili, come Pakistan, Bangladesh, nazioni del Sahel, isole del Pacifico, di essere indennizzati per i danni che già stanno subendo, a causa di inondazioni, siccità o innalzamento dei mari, il documento finale prevede un generico impegno da parte dei Paesi ricchi, mentre i dettagli sono rinviati ad accordi tutti da costruire. Della serie: campa cavallo che l’erba cresce.
Eppure tutti sanno che la responsabilità dei cambiamenti climatici è essenzialmente dei Paesi ricchi. Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea se ne intesta un altro 24%. La Cina, che oggi è il maggiore emettitore mondiale di CO2, da un punto di vista storico ha contribuito solo per il 13%. Quanto all’Africa, la sua partecipazione è stata appena del 2%. Eppure, assieme al Sud est asiatico, è il continente che sta pagando di più. Anche sotto forma di migrazioni, perché, quando la vita si fa difficile, l’inevitabile conseguenza è l’abbandono della propria casa nella speranza di trovare soluzioni di vita altrove.
Di cambiamenti climatici si parla dal 1992, l’anno in cui le Nazioni Unite organizzarono la Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente, producendo varie convenzioni, non solo sul clima, ma anche su biodiversità, oceani, foreste. Ma, a distanza di 30 anni, dobbiamo ammettere che non c’è una vera volontà di risolvere queste problematiche, semplicemente perché il sistema non è disponibile a mettersi in discussione. I drammi che stiamo vivendo, e che non sono limitati all’aumento della temperatura terrestre, sono il frutto di un’impostazione ideologica, prima ancora che economica, riassumibile nel concetto di crescita. Un’idea che ha cominciato a svilupparsi attorno al 1600 con l’emergere della classe mercantile, che ha indicato l’accumulazione di ricchezza come il massimo bene da perseguire, non solo a livello individuale, ma di intera società. Non a caso il nostro nuovo credo è diventato la crescita del Pil, non importa come distribuito, né a cosa finalizzato. L’importante è che cresca, perché ciò che è buono per le imprese è buono per l’intera società. Così si è creato un rapporto di totale sudditanza nei confronti delle imprese, che sono diventate i veri dominatori capaci di determinare non solo le politiche fiscali e di spesa dei governi, ma anche i rapporti fra Stati e le scelte da compiere in campo ambientale. Non a caso l’ultima conferenza sul clima di Sharm el Sheik era sponsorizzata da Microsoft e Coca-Cola, mentre IBM, Vodafone e Boston Consulting Group figuravano fra i partner organizzatori. Come se non bastasse, l’Ong Global Witness ha contato ben 636 lobbisti a libro paga di imprese petrolifere, presenti alla Conferenza non come osservatori, ma come protagonisti attivi nelle trattative.
Finché non smetteremo di affidare il pollaio alle volpi e non rigetteremo la cultura della crescita, non riusciremo mai a fare pace col pianeta. Se continueremo a lasciare che siano le imprese a decidere per noi, due saranno gli esiti possibili. Qualora si ostinino a non riconoscere l’impossibilità di proseguire lungo la strada della crescita, assisteremo all’implosione del pianeta per l’eccesso di rifiuti prodotti e l’eccesso di risorse prelevate. Qualora si rendessero conto che il tempo della crescita è finito, ma volessero continuare a imporci il mercato come gestore della scarsità, assisteremmo a livelli di disuguaglianza mai visti prima. Perché il metodo di distribuzione adottato dal mercato si fonda sul prezzo. Risorse scarse e spazi ambientali scarsi si lasciano aumentare di prezzo permettendo solo a chi ha i soldi di goderne, mentre gli altri si lasciano a bocca asciutta.
La nostra unica speranza risiede nei cittadini, nella loro capacità di capire che il nostro obiettivo non è accumulare, ma vivere bene. Ossia permettere a tutti di condurre una vita dignitosa nel rispetto dei limiti del pianeta e della piena inclusione lavorativa. Un percorso possibile a patto che si sappiano rimettere al centro i diritti, che si sappia ridimensionare il ruolo del mercato e potenziare, al contrario, quello dell’economia pubblica, che si sappia riscoprire il ruolo della comunità, della solidarietà collettiva, dei servizi gratuiti, dei beni comuni e delle forme di lavoro non monetarie. Un dibattito al momento totalmente assente in qualsiasi sede politica. Ma è di buon auspicio che ogni tanto qualche dirigente sindacale affermi che va ripensato il modello di sviluppo, che bisogna ridefinire cosa produrre, come produrlo e per chi produrlo. Piccole luci che dobbiamo sostenere. ◘
di Francesco Gesualdi