Iraq.
E anche stamattina ho letto le ultime analisi sulla Russia. Gli ultimi conteggi di missili, e droni e carrarmati. Si discute di T-72 e KH-101, e Buk, Bulava e Iskander, Bayraktar T82 turchi contro Mohajer-6 iraniani. Ma qual è il vero fronte, oggi, in una guerra? Dove si combatte? Qual è la cronaca della battaglia: quella sull’avanzata su Melitopol, o quella alla pagina dopo, sulle file alla Caritas?
Cosa è più decisivo, per la vittoria e la sconfitta?
E cosa è la vittoria? E cosa la sconfitta?
Le parole sono specchio della vita. E non a caso si dice: la guerra di Siria, la guerra di Bosnia. Non: la guerra in Siria. In Bosnia. E questa è la guerra di Ucraina.
In Ucraina. Ma non per l’Ucraina.
Dal 22 febbraio non si parla d’altro. A Kiev sono accreditati oltre 11mila giornalisti stranieri. Ma nel mondo in cui sto, l’Ucraina non fa notizia. Ieri il ministro degli Affari Esteri dell’India era con Sergei Lavrov, il ministro degli Affari Esteri della Russia: e non l’ha mai citata. Ha snocciolato dati sull’espansione dei legami d’affari, e sul petrolio che ora Modi compra da Mosca. Aumentato dal 2% al 23%. E ha concluso dicendo: «Le nostre relazioni non sono mai state migliori». «Ci guadagniamo», ha detto. Qual è il problema?
L’India. Che ha da sola il doppio degli abitanti di Europa e Stati Uniti insieme.
A Baghdad ho chiesto a un deputato quali fossero le ripercussioni della guerra ucraina sull’Iraq. Quale guerra?, ha detto. I jihadisti? O gli americani? L’Ucraina neppure gli è venuta in mente. Ma perché per l’Iraq, non fa differenza. Anzi. Con il petrolio alle stelle, ha un surplus di bilancio di 80 miliardi di dollari. L’unica differenza sono le ONG. Che sono andate via tutte. Insieme agli aiuti internazionali. E l’Iraq, ora, è fuori dai radar. Ma per molti, non è una cosa negativa. Al contrario. Perché significa il ritiro dell’Occidente. Degli Stati Uniti. Che era già in corso, in realtà. In Siria la tregua è arrivata dal processo di Astana: da trattative tra la Russia, l’Iran e Turchia. E basta. A ottobre, quando ha chiesto all’OPEC di produrre più petrolio per sostenere l’Europa a corto di gas, Joe Biden non ha avuto un solo no, ma più di uno. E l’Arabia Saudita ha tagliato 2 milioni di barili al giorno. L’Arabia Saudita. La più fedele degli alleati.
Vogliamo punirla? Vogliamo adottare sanzioni? Guardate l’Afghanistan. Il cui ministro dell’Interno, Siraj Haqqani, ha sulla testa una taglia dell’Fbi da 5 milioni di dollari. In un anno, i talebani hanno tenuto oltre 500 incontri bilaterali. Quasi un quinto con la Cina: 82. Ma hanno stretto accordi con la Turchia, il Qatar, l’Iran, il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Giappone. E naturalmente, con Putin.
Non siamo più capaci di isolare neppure i talebani.
Ma in fondo, perché dovremmo esserlo? Cosa abbiamo dato all’Afghanistan? Ricchezza? Siamo arrivati che era alla fame un afghano su tre, e siamo andati via che era alla fame un afghano su due. Abbiamo dato democrazia, forse? I nostri alleati erano le milizie locali. Città a città. O resta l’esempio, magari? I nostri valori? I famosi diritti umani? Il tribunale dell’Aja sta indagando sui crimini dei talebani. Ha escluso di indagare sulle accuse alla NATO. Poi in aula c’è scritto: La legge è uguale per tutti.
Abbiamo dato guerra. E ora guerra è quello che ci viene restituito.
Nel mondo in cui sto, a febbraio erano tutti indifferenti. Nessun sostegno a Putin: ma nessuna solidarietà a Europa e Stati Uniti. Ma ora, è tutto un viavai da Mosca. Putin non è il loro eroe. Ma è come se fosse scattato il “tana libera tutti”: uno a uno, si stanno riaprendo tutti i fronti. Tutti quelli in cui la Russia è coinvolta: e concede nuovi spazi di manovra. Il più visibile è quello di Siria e Iraq: in cui la Turchia sta riguadagnando terreno per rompere la continuità curda. Ma anche Hamas. Che ha riallineato Gaza all’Iran. Il principale alleato di Putin in Medio Oriente. O il Kosovo. Con i serbi, che sono l’avanguardia di Putin in Europa. E la Libia: è un caso che siano ricominciati gli sbarchi? Era esattamente l’obiettivo di Putin: un ordine internazionale multipolare. Per ora, per la verità, più che un ordine è un disordine. Ma di certo, è il tramonto del nostro dominio.
Ma stiamo ancora qui a contare quanti droni restano.
A discutere di arsenali.
Ancora siamo alla cavalleria. Eppure, uno dei pilastri della teoria militare sovietica è la dottrina della correlazione delle forze. L’idea, cioè, che lo scontro armato non è che una parte di uno scontro più ampio, e il ruolo della politica è coprire l’insieme del campo strategico. E qual è il nostro punto vulnerabile, oggi? La difesa antiaerea? O il gas, il grano? I fertilizzanti? L’interdipendenza economica? Ma è vietato scrivere. Vietato riflettere. Subito ti tacciano di essere con Putin.
Subito ti dicono: E allora? Kiev dovrebbe forse arrendersi?
No. Si tratta solo di non dimenticare qual è il fronte. Qual è l’obiettivo.
Possiamo fermare Putin in Ucraina. Certo. A Kherson. Ma non è lì che sta avanzando. ◘
di Francesca Borri