Editoriale.
Di fronte a tragedie come quella che ha spazzato via in un attimo fatale le vite di quattro giovanissimi non si può parlare, perché le parole non possono colmare la voragine che tale evento ha aperto, che si palesa ai nostri sguardi, che si riflette sui volti attoniti delle persone. E per rispetto del dramma delle famiglie. E anche di don Achille Rossi, nella cui parrocchia due dei quattro ragazzi morti operavano nel doposcuola. Non ci sono parole che possano fornire ragioni a ciò che non si può comprendere con la ragione stessa, che possano dire perché quattro giovani sospinti dal desiderio che apre alla vita abbiano invece incontrato la barriera insormontabile della morte. Così restiamo smarriti di fronte a questa terribile e insopportabile fatalità.
Si dice, in questi casi, che la morte sia frutto di un destino ineluttabile, una realtà che sfugge alla nostra possibilità di esorcizzarla. Ma è difficile doversi rassegnare alla presenza di un “nemico” così crudele, che ci priva del frutto odoroso proprio nel momento della sua fioritura. Non si può accettare che la vita, la cui cura è così difficile da praticare giorno dopo giorno, possa essere esposta all’intervento di forze negative e incontrollabili, come se ci fosse qualcosa che tenti ogni momento di negarla, di contrastarla e infine di eliminarla. Eppure è così, è il mistero che tutto avvolge.
Ma c’è anche un’altra domanda a cui non si può sfuggire: fin dove incombe il destino?, e dove si colloca la responsabilità umana? Dov’è la linea che separa l’imponderabile e il prevedibile? Certo è che in questo come in tanti altri casi, forse una mano non secondaria al destino l’ha data l’uomo. Ed è così sempre. Ogni volta che si verifica un incidente sul lavoro. Ogni volta che muore una donna per la violenza maschile. Ogni volta che muore un bambino per fame. Ogni giorno che si contano i morti delle guerre. Anche l’incidente che ha spezzato le vite dei quattro giovani non era prevedibile? O forse sì? Queste domande si rincorrono senza trovare risposta. Ma venti anni prima altre quattro vite di giovani avevano trovato la morte nello stesso punto e con la stessa dinamica. Altri incidenti si sono verificati sullo stesso luogo, segnali premonitori di catastrofi annunciate. È quello che stiamo vedendo in questi giorni a Ischia e in Sicilia, o abbiamo visto dopo la caduta del ponte Morandi e della funivia di Mottarone. Dietro a questi eventi ci sono sempre incuria, disinteresse, speculazione, rinvii, irresponsabilità, oltre alla fatalità. E, dopo, inizia l’eterna ricerca delle colpe, quando gli eventi sono già avvenuti.
Otto vite spezzate proprio in quel tratto di strada in venti anni è un tributo troppo alto per essere accettato come fatalità. Non si può piangere sempre sulle disgrazie annunciate, così come non si può invocare una maggiore educazione stradale impartita ai giovani, se poi l’educazione non serve a farli camminare su strade sicure e ben tenute. Si conosce la pericolosità di quel tratto di statale da molto tempo. Cosa aspettano le istituzioni a fare le dovute pressioni verso chi ne ha la responsabilità perché lo metta in sicurezza? Anche questo episodio parla al Paese di una immaturità profonda di tutti noi; della classe dirigente, in primo luogo, di cui una parte invoca il ponte sullo stretto, sapendo che al di là di quel tratto di mare esistono mulattiere, ferrovie ancora non elettrificate, un’isola in preda a smottamenti, frane, alluvioni, morte. Ma anche di quei cittadini che negano che a Ischia sia stato l’abusivismo a provocare la tragedia. C’è una irresponsabilità collettiva di cui bisogna prendere coscienza. E ciò rende il fatto ancora più doloroso e tragico. Bisognerebbe quindi togliere ogni alibi al rimorso, facendo ciò che è nelle nostre responsabilità. L'appuntamento col destino rimane per tutti un mistero insondabile, ma almeno sapremmo di aver fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità.
Redazione