Arte.
Una delle questioni emerse in occasione del centenario della nascita di Alberto Burri, e mai approfondita adeguatamente, ha posto l’interrogativo sulla possibile influenza che il suo speciale modo di essere tifernate ha esercitato sulla sua creazione artistica; e se questa ipotesi si possa estendere all’Umbria come orizzonte di ideazione formale da cui il Maestro abbia potuto far derivare una ispirazione.
Argomentare su quest’ultimo tema è certamente interessante; e, tuttavia, chi immaginasse di ricavare da questa ipotetica relazione uno spunto che permettesse di approfondire aspetti non ancora esplorati della sua formazione artistica e culturale, presto sarebbe costretto a sospendere la sua ricerca. Infatti, nell’immaginario civico burriano - luogo mentale dove si creano le condizioni umane, psicologiche e culturali delle relazioni con il mondo - l’Umbria come territorio delimitato, come Regione che conferisce a chi vi è nato un’identità generica di appartenenza, è assente; ci sono invece alcune città umbre e, insieme, persone, individui con i quali egli ha condiviso esperienze, partendo dalle quali è possibile capire, almeno in parte, alcuni aspetti della sua complessa personalità. Perché anche questo deve essere detto in premessa: non esiste altro artista contemporaneo del livello sconfinato di Alberto Burri che unisca nel proprio profilo identitario aspetti antropologici così diversi. Da una parte, infatti, esso si manifesta, in una proiezione pubblica straordinaria, per l’apprezzamento universale al contributo di innovazione e originalità che la sua produzione formale ha dato all’arte della seconda metà del ‘900 in Italia e nel mondo; dall’altra, quello stesso profilo è come se si contraesse, quando fosse riflettuto nella sua dimensione privata, domestica, vivendo tutto all’interno di una personalità che concedeva poco o nulla ai rapporti esterni generici. Burri aborriva le interviste o di essere al centro di discussioni durante le quali gli fosse richiesto di indicare la sua affiliazione a scuole o indirizzi estetici, e così rifuggiva le occasioni dove si pretendesse l’esposizione pubblica della sua persona. Quasi al contrario, egli amava il rapporto amicale diretto e molto selezionato, sempre vincolato a persone di sua antica frequentazione.
Se l’antropologia degli individui si può in parte intendere ricorrendo alle radici archetipe di ciascuno, allora c’è da rimarcare che la dimensione principale della personalità di Alberto Burri si comprende pensando al rapporto profondissimo che egli ha avuto con Città di Castello. Non si dà, in effetti, alcun riferimento biografico sull’artista tifernate che non sia obbligato a soffermarsi sullo speciale ancoraggio al luogo che gli ha dato i natali. Anche questo aspetto della sua personalità è parsa una stranezza che ha spinto a interrogarsi su come fosse stato possibile che un artista, dagli anni ’50 del secolo scorso al centro del dibattito estetico a livello internazionale per i cambiamenti radicali che aveva imposto al modo di intendere e interpretare il fare pittura, avesse potuto decidere di trasformare Città di Castello in un luogo ideale dove si manifestassero esempi irripetibili di tutta la sua arte e dove concentrare la sintesi della sua produzione formale.
Per queste ragioni Burri ha progettato, curandone anche i dettagli, la realizzazione di due musei – la Fondazione di Palazzo Albizzini e gli ex Essiccatoi di Rignaldello – che avrebbero dovuto tracciare in maniera emblematica e mirabile il tragitto della sua produzione artistica; così che tutte le persone che avessero voluto confrontarsi e conoscere la sua pittura e alcuni episodi della sua scultura fossero costrette ad andare a Città di Castello. Si è trattato, dunque, di un legame mitico, ancestrale, dove la terra tifernate è diventata luogo identitario, lingua, sentimenti, cultura.
C’è chi potrebbe argomentare su questa propensione asserendo che il localismo metaforico di Alberto Burri si spiega se l’insieme della sua produzione artistica, senza soluzione di continuità, si interpreta come sfida alla modernità; cioè come conflitto irrisolvibile con gli esiti tragici del ‘900, che trova nell’ancoraggio archetipo della sua soggettività al luogo dove è nato, il modo più potente per essere espresso. Così, in effetti, è stato. La sua acuta sensibilità artistica, del resto, con rare eccezioni causate dalla qualità dell’interlocutore, avrebbe potuto accettare l’allocazione casuale e sparsa delle sue opere nelle indifferenti sale dei musei d’arte contemporanea, che più volte gli richiesero selezionate acquisizioni. Tutt’altro, invece, sarebbe stato immaginare e poi concretamente programmare la ristrutturazione e l’adattamento di spazi che ospitassero, in una scelta che nulla avesse lasciato al caso, tutti gli episodi della sua arte, in un tragitto rigoroso e unitario, dagli esordi, che molto fecero discutere la critica d’arte, identificati nei “sacchi”, fino alle estreme, sublimi interpretazioni esercitate sul “cellotex”, base materica trasfigurata che accoglie forme purissime e quasi si muta in esse.
Eppure, la decisione di Burri di permettere che Città di Castello fosse l’approdo dove sarebbe stato possibile godere di una visione organica della sua arte, come in nessun’altra parte al mondo, non ha certamente costretto quell’assoluto patrimonio culturale nel recinto o nei confini della sua “piccola patria”. Il filosofo, al riguardo, imporrebbe una riflessione elementare e abissale nello stesso tempo: quando, eccezionalmente, succede che l’universale assoluto si manifesti attraverso il particolare – sia esso persona catturata dal genio o fatti che cambiano il corso della storia o manufatti, produzioni artistiche che interpretano lo spirito del tempo o ne contraddicono eroicamente il corso – il particolare si trasfigura, il suo limite è scosso potentemente da una presenza misteriosa che ne dilata i confini ed è come se si delocalizzasse e il tempo che lo riguarda non fosse più cadenza del presente che incalza, ma istanza che incontra l’eterno, il detemporalizzato.
Così, quelli che volessero, in una concentrazione mentale tesa e aperta, porsi a confronto con le opere di Burri attraversando gli spazi dei due musei di Città di Castello, e fossero immessi nella loro progressiva estensione, fino a quelli di Rignaldello, si accorgerebbero che Città di Castello non è più un riferimento geografico, ma metafisico. Non, dunque, una “piccola patria” che è rifugio orgoglioso e distante, quanto una radice archetipa attraverso cui alimentare una singolare, solitaria, coraggiosa sfida alla modernità. Il luogo tifernate diviene ambiente, reale e, nello stesso tempo, sublimato, dove l’arte ha celebrato in rappresentazione la tensione dello spirito che recupera il suo magistero e la sua primalità sulla materia mediante il libero proporsi delle forme e dei colori fuori dallo spazio e dal tempo. Questo disegno si esprime in un campo infinito dove le citazioni storiche tacciono e la forma non è più assoggettabile alle dolorose leggi della necessità empirica. Anche il numero non ha senso perché lì non vige la distinzione, la successione che precede l’utilizzo funzionale o pratico delle forme.
Eppure, Città di Castello è Umbria; dunque, l’ancoraggio al proprio fondamento archetipo non poteva essere arricchito attraverso una proiezione territoriale più ampia, fino a coinvolgere Perugia e poi altre città, in modo da riconoscere una sua appartenenza a radici più estese, regionali appunto? La risposta è negativa perché Burri si sarebbe sottratto alla sostanza dell’interrogativo né partecipò mai alle discussioni, che avrebbe definito meramente intellettualistiche, tendenti negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso a costruire l’identità di una Regione di difficile definizione.
Del resto è noto che l’unico tentativo di elaborare un’idea dell’Umbria come ambito territoriale riconoscibile, a cui richiamarsi per giustificare una credibile appartenenza, è stato promosso dalla politica – oggi completamente trascurato – non dalla cultura. O meglio, quando la cultura ha affrontato seriamente per alcuni tratti di storia il tema dell’identità antropologico-culturale dell’Umbria, ne ha evidenziato l‘enigmaticità e, insieme, la pluralità di vocazioni, di afferenze storico-culturali, così come il suo naturale policentrismo, da assecondare, non da conculcare. All’arte, dunque, non poteva di certo essere assegnato il compito di rappresentare un’anima unitaria e unita dell’Umbria; semmai, richiesta di discuterne, essa ne avrebbe accentuato la radicale e irrinunciabile diversità e la originalità di apporti che mai avrebbero potuto essere ristretti all’interno di angusti confini regionali. L’arte, in effetti, aborre i confini. Per queste ragioni Città di Castello per Burri non è meramente un insediamento urbano, ma un luogo che la creatività artistica solleva a dialogare con il mondo.
di Venanzio Nocchi