Sabato, 20 Aprile 2024

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Sotto gli arconi dell’acquedotto medievale

Perugia. Il patrimonio storico della periferia deve essere ricucito con la città, come ha affermato Renzo Piano. Questo processo è stato avviato e ora deve proseguire col recupero  degli Arconi.

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Sotto i ruderi degli Arconi medievali dell’Acquedotto della Fontana di Piazza di Perugia nella campagna di San Marco, lo stato d’animo che si sente è tenerezza verso quelle pietre sconnesse, invase dai rampicanti, che non si comprende come facciano a non crollare, relitti di un’opera costruita per trasportare a Perugia l’acqua bene prezioso allora, come oggi. Pietre abbandonate a se stesse, che parlano della grandezza di Perugia tra il Due e Trecento, capace di creare con Fra’ Bevignate e Boninsegna Veneziano un’opera monumentale dal punto di vista ingegneristico, come l’acquedotto necessario alla bellissima Fontana scolpita da Nicola e Giovanni Pisano; dicono anche della Perugia di oggi, mentre il quartiere di San Marco dall’alto osserva quelle pietre, palazzine di metà del secolo scorso, che viste dal basso sembrano uno dei castelli disseminati nella campagna perugina a difesa del Comune. Insieme, quelle case anonime e quegli “Arconi” densi di significato ci e si guardano e giudicano. Il loro non è un semplice dialogo, ma un reciproco ascolto e una reciproca richiesta d’aiuto. Un gioco di specchi che mette in connessione il corpo delle cose perché lo scambio città campagna non è una semplice questione estetica visibile quando, pensando a Perugia, avviene tra la campagna e il tratto di mura medievali intorno alla Torre di Porta Sant’Angelo, ma un fatto sociale che - sempre e comunque - accade, là dove la città s’incontra con la campagna. E Le pietre degli “Arconi”, in basso, sono vive tanto quanto sono vive le case in alto. Vive e non estranee le une alle altre.

Gli “Arconi”, San Marco e gli altri due quartieri del territorio Monte Grillo e Ponte d’Oddi, sono non solo periferici rispetto al centro di Perugia, ma periferia l’uno dell’altro, parti di uno stesso territorio che malamente comunicano. A proposito di quartieri come questi, isolati dal centro e tra di loro, Renzo Piano parla della necessità di un “rammendo”, di operare su di essi delicatamente, ricucendoli. Pensando a questo, prende significato la messa in sicurezza e il successivo recupero dei frammenti di acquedotto sotto San Marco, di quelli a Ponte d’Oddi, della “Botticella”, sfiatatoio di Monte Grillo, facendoli diventare, indipendentemente dal fatto che siano, dei due medievali o di quello ottocentesco di Giovanni Cerrini, parte di un pensiero e di un progetto legato al contesto, al presente e alla storia che l’ha prodotti. Un percorso che dia senso a ciò che si ha intenzione di fare non può avere un semplice intento didattico-educativo, ma civico. Come civica è stata la costruzione dei tre acquedotti dai “Conservoni” di Monte Pacciano fino alla Fontana di Piazza bella, non tanto per la sua innegabile bellezza, ma perché nata per essere di tutti e visibile rappresentazione del libero Comune. Come civico è stato il percorso dell’ultimo restauro della Fontana Maggiore e del dibattito che ci fu su cosa fare; dalla cupola trasparente per la verifica dei lavori da parte di cittadini e cittadine; dalle acqueforti, stampe, oggetti e volumi venduti a restauro ultimato.

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Il grande storico dell’arte Roberto Longhi in una lettera scritta all’allievo Giuliano Briganti a proposito dei bombardamenti subiti da Genova nel 1944, denuncia le responsabilità degli storici dell’arte colpevoli “di tante ferite al torso dell’arte italiana […] per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere”. Anche la Fontana di Perugia è emblematica di quest’incapacità di narrare compiutamente ai cittadini il patrimonio storico, artistico e sociale che tutta rappresenta, rimasta com’è la sua narrazione confinata o nell’autoreferenzialità degli iniziati, o in un racconto per frammenti dimentico del fatto che è un corpo vivo che ha le radici nei “Conservoni”, il suo fiore bellissimo nella Fontana e un torso rappresentato dall’acquedotto, in particolare dagli Arconi di San Marco, che, se è vero che hanno bisogno di noi, è altrettanto vero che noi abbiamo bisogno di loro, necessari come sono a quell’opera di rammendo tra periferie e centro.

Rendendo solidali tra di esse le pietre che li formano, queste rendono solidali noi cittadini di oggi, come resero solidali quelli del passato. Ecco che, allora, i vari frammenti dei tre acquedotti disseminati nelle ville intorno ai “Conservoni”, nella campagna, a San Marco, Monte Grillo, a Ponte d’Oddi comprese le pietre che pare siano state raccattate dai paesani per costruire il loro circolo, le due “botticelle”, i cunicoli, Via del Fagiano, l’acquedotto de la Conca, la postierla etrusca tornano a essere un’unica cosa e un unico pensiero. Quando il Comune di Perugia rifece le scalette di via Appia ebbe la felice e semplice intuizione di rendere visibile, con due strisce bianche di marmo, l’ingresso dell’acquedotto nella postierla etrusca, la stessa cosa avrebbero dovuto fare in via Fabretti, mettendo in relazione Via dell’acquedotto con via del Fagiano (alla cui lapide viaria andrebbe aggiunto “già dei Condotti”), continuando quel lavoro di cucitura frammento per frammento, toponimo per toponimo, cui ha già contribuito il Circolo di Ponte d’Oddi, chiedendo alla toponomastica di chiamare “Piazza del vecchio Acquedotto” uno slargo del paese. Un processo, quindi, avviato, da proseguire con la messa in sicurezza e successivo recupero degli “Arconi”.

Solo ritenendo che le opere d’arte e architettoniche non dobbiamo valorizzarle ma rispettarle perché sono loro che valorizzano noi, prende corpo un percorso di senso che fa società, suggerisce un’idea di cittadinanza come presenza fisica esempio di una delle più antiche caratteristiche della pratica umana: la città che si fa in un processo che viene agito da chi la città abita. Dimostrando così d’essere capaci di convertire il passato in futuro, non pensando cosa e quanto possa rendere, ma al riscatto sociale e civile di un territorio depresso economicamente e culturalmente. Altrimenti, come ha scritto Tomaso Montanari in Le pietre e il popolo (Minimum fax), se il “patrimonio storico e artistico, e cioè il tessuto unico delle nostre città, non genera futuro in termini di cittadinanza, integrazione, eguaglianza costituzionale e vita sociale, allora non serve a niente e non vale la pena di conservarlo”.

di Vanni Capoccia


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