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Di carcere e delle pene

Carceri.

silvia romano2

“Se in Italia avessimo avuto 58.000 suicidi dall’inizio dell’anno, probabilmente scoppierebbe una insurrezione. Questa è la proporzione dei suicidi nelle carceri in meno di 8 mesi: 52, quasi uno su mille detenuti.” A divulgare pubblicamente questi dati e questa riflessione è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Sul tema abbiamo intervistato Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti del Comune di Roma.

Cinquantadue suicidi in poco più di sette mesi. Un numero agghiacciante. Quali sono i motivi più importanti del disagio che vivono i detenuti?

«Al di là delle storie individuali, che non conosciamo e che sono tutte diverse, ci sono condizioni di sofferenza evidenti in carcere: la privazione della libertà di per sé per molte persone è una esperienza traumatica; a questo aggiungiamo la  solitudine, in cui ci si può ritrovare molto facilmente, per cui una persona non ha più contatti significativi con i propri famigliari, spesso non ha proprio alcun riferimento “affettivo”, nessun essere umano con cui confidarsi, da cui ricevere un minimo di consolazione… sono situazioni per alcuni insostenibili. Dopo il Covid, psicologi, educatori, gli stessi volontari per mesi non hanno più frequentato le carceri. Questo ha provocato anche l’impossibilità, da parte dell’istituzione, di intercettare i disagi più gravi e quindi di agire preventivamente. Noi tutti abbiamo registrato una sofferenza psicologica dei giovani, dei bambini, degli anziani e delle persone sole. Pensiamo che cosa può essere stato il confinamento per i detenuti! E poi il carcere è sempre in sovraffollamento: gli spazi sono di per sé angusti e i servizi molto carenti. Anche nel vitto ci sono gravissime carenze!»

Che cosa si può e si deve fare subito per migliorare questa drammatica situazione?

«Per prevenire i suicidi c’è bisogno di personale (medici, psicologi, educatori…, una task force) e di strutture adeguate che non ci sono.

Noi abbiamo fatto due proposte: la prima riguarda la possibilità per i detenuti di poter effettuare un numero maggiore di telefonate (attualmente hanno solo mediamente 8 telefonate al mese!). Ciò permettere loro di poter chiamare i propri famigliari o amici, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà e di sofferenza emotiva… I detenuti potrebbero chiamare anche uno psicologo, i volontari di una associazione. Tutti i numeri possono essere comunque controllati dalla Direzione del carcere, per garantire la sicurezza. E poi rendere applicabili le misure alternative al carcere per le pene inferiori ai 4 anni, previste dalla recente riforma Cartabia. Così si alleggerirebbe la condizione di coloro che escono dal carcere e di coloro che ci rimangono, poiché diminuirebbe l’affollamento. Si consideri che attualmente abbiamo un educatore ogni 200 detenuti».

Una parte dei detenuti soffre di disturbi psichici e di dipendenze dalle sostanze tossiche. Sono previsti per costoro percorsi di cura di qualche genere?

«Le persone che soffrono di disturbi psichici e di problemi connessi con la tossicodipendenza non devono essere curate in carcere, perché il carcere non cura. Si calcola che circa il 30% dei detenuti entra in carcere con questo problema. E ne esce assolutamente nelle stesse condizioni, se non peggiori. Per queste persone bisogna pensare a soluzioni alternative alla detenzione. Basti pensare alla storia della ragazza di 27 anni, Donatella Hodo, che si è suicidata poche settimane fa nel carcere di Verona, per un grave disagio connesso alla tossicodipendenza che l’ha portata a entrare e uscire dal carcere senza essere curata. I disturbi psichici e la tossicodipendenza spesso sono essi stessi una delle cause delle azioni criminose. Non si può non distinguere chi è malato da chi non lo è».

Il giudice Semeraro (il magistrato che doveva occuparsi del recupero proprio di Donatella Hodo) ha detto che “il carcere è una struttura per contenere la violenza maschile” e che manca completamente una politica che tenga conto dei diversi bisogni delle donne.

«È vero. L’attenzione per le donne, che rappresentano il 4% della popolazione carceraria, si giustifica con il fatto che la maggior parte di queste ha figli, anche minori, per i quali esse nutrono una legittima preoccupazione e che queste non possono vedere e seguire, se non in minima parte. Il rapporto delle madri con i figli è molto più forte rispetto ai padri, per cui per queste madri la carcerazione assume un aspetto più violento. Alla luce di questo dato, escludendo le donne che sono recluse nell’alta sicurezza, sarebbero necessarie misure alternative alla detenzione, o comunque un adeguamento delle norme, che consentisse attraverso permessi, visite più numerose, contatti telefonici appunto, di tutelare maggiormente il diritto di questi bambini e ragazzi di avere un rapporto affettivo con le loro madri».

L’art. 27 della nostra Costituzione dichiara che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Perché è così forte nell’opinione pubblica il principio della “pena punitiva”, il pregiudizio che il male si elide con il male?

«Chi pensa che chi ha sbagliato “deve essere rinchiuso in gattabuia” e che “deve essere buttata via la chiave” non conosce il carcere e, se si tratta di un uomo politico, dà prova di grande ignoranza. Al di là dei diritti personali, che la Costituzione garantisce ai condannati per reati più o meno gravi, alla società conviene che chi esce dal carcere non torni a delinquere! Se gli ex detenuti riescono con progetti di accompagnamento al lavoro, con attività culturali che favoriscano la consapevolezza dei propri “errori” a tornare cittadini rispettabili, la società guadagna in termini di sicurezza e di assistenza sociale. Abbiamo gli strumenti giusti, abbiamo la possibilità di rompere questo circuito di violenza e di incattivimento delle coscienze di tutti, alla fine, dei carnefici ma anche delle vittime. È necessario più investimento sociale e meno investimento penale. È necessario liberare la materia del carcere dalla propaganda elettorale, per cui “più carcere ai rei” paga in termini di consenso. Alla fine parlano i dati: oltre il 90% dei condannati una volta fuori, torna a delinquere. Chi invece può usufruire di percorsi di inserimento (lavoro, corsi di formazione professionale, esperienze culturali... ecc.) ricade molto meno nella delinquenza (19%)».

Quali sono gli ultimi provvedimenti in questa direzione?

«Siamo in stallo. Abbiamo già parlato delle misure della riforma Cartabia, (scarcerazione anticipata a 75 giorni invece che a 45 e misure di pena alternative per chi abbia una condanna al carcere inferiore ai 4 anni). Queste misure stanno incontrando tante difficoltà. La legislatura sta finendo e, probabilmente, non se ne farà nulla! Ma non dimentichiamo tutto il lavoro svolto durante gli "Stati generali dell’esecuzione penale" (ministro Orlando, ottobre 2017) per riformare il sistema penitenziario, che non ha prodotto alcun risultato!

In uno stato moderno il carcere dovrebbe rimanere l’ultima possibilità di pena. La nostra Costituzione, se la leggiamo bene, non parla di carcere. Parla di pene, che devono avere una finalità rieducativa… ma le pene possono essere tante: possono essere alcuni lavori socialmente utili in enti pubblici, in comunità di vario genere, può essere l’affidamento a una struttura sociale o sanitaria. Quindi la parola “pena” deve essere declinata tenendo conto della peculiarità della persona e del reato commesso».

È già nata una cultura per abolire il carcere (Luigi Manconi, Gherardo Colombo ne hanno scritto…), pensando a soluzioni nuove con effetti straordinari proprio ai fini della rieducazione.

«Questa, a mio avviso, è un’idea del tutto utopica. Io credo che il carcere rimanga comunque una misura necessaria per contenere la violenza, per fare in modo che le vittime delle varie forme di prevaricazione non si sentano abbandonate a se stesse. Ciò detto, in carcere ci sono troppe persone; dovrebbero starci soltanto coloro che hanno commesso reati gravi, per cui è assolutamente necessario garantire la sicurezza sociale. Il numero dei suicidi è solo uno dei campanelli d’allarme, il più doloroso, ma non l’unico». ◘

di Daniela Mariotti


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