Rubrica. Il corpo delle donne: colloquio con Lea Melandri
I numeri sono sconfortanti, inaccettabili: 10 femminicidi nei primi 20 giorni di Giugno, 58 dall’inizio dell’anno. Perciò a Bologna le femministe dell’associazione NonUnaDiMeno sono scese in piazza a gridare tutte insieme la loro rabbia perché “ci stanno uccidendo e vogliamo vivere”, perché “lo Stato non ci protegge”.
È legittimo, è comprensibile: come non dare ragione a rivendicazioni così ovvie come quelle della vita e della libertà individuale? Certamente lo Stato può e deve fare di più per proteggere le donne che sono minacciate, spesso da anni, dai loro aguzzini, prima di essere uccise. Questo carattere di omicidio annunciato è insopportabile e si devono inventare nuove misure di protezione pubblica efficaci, perché quelle in atto non funzionano.
Tuttavia è fin troppo noto che le leggi, necessarie, non saranno mai sufficienti per arginare un fenomeno che ha radici profonde nella cultura patriarcale, violenta e discriminatoria, che viene ancora sistematicamente ignorata in quasi tutti gli ambiti sociali, dagli uomini ma anche dalle donne che non sono consapevoli di questo tessuto di valori arcaici, che inquinano i rapporti fra i sessi e che dobbiamo conoscere e portare alla luce il più possibile per mettere in atto un vero cambiamento.
A Lea Melandri, un nome storico del femminismo, autrice di un testo fondamentale per l’analisi del fenomeno dei femminicidi (Amore e violenza – il fattore molesto della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) abbiamo chiesto esplicitamente quali siano le radici culturali della violenza di genere, per gli uomini che la agiscono e per le donne che la subiscono.
«La violenza di genere ha le sue radici profonde nel rapporto di potere tra i due sessi, che si è confuso con le esperienze più intime, come la sessualità, la maternità, le relazioni famigliari. Gli uomini sono i figli delle donne. Il corpo che hanno sottomesso alla loro legge, sfruttato e violato in tutti i modi, è il corpo che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che ritrovano nella vita amorosa adulta e con cui sognano di rivivere l’originaria appartenenza a un altro essere. Ma è anche il corpo che li ha tenuti in sua balìa nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità, che poteva dare loro la vita o la morte, accudimento o abbandono. Confinando la donna nel ruolo di madre, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché negli interni delle case tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo-figlio e il potere di indispensabilità della donna-madre: sono i residui di un dominio patriarcale scosso nei suoi fondamenti a partire dalla libertà che le donne vanno faticosamente conquistando».
Perché è così difficile prendere coscienza di questi contenuti a livello di cultura di massa? Quali sono le resistenze che impediscono il superamento dei fenomeni di violenza verso le donne?
«La consapevolezza del rapporto di potere che ha segnato da millenni la relazione tra i sessi avanza con lentezza e tra molti ostacoli. Non ultimo, è il fatto che si è trattato di una colonizzazione che ha interessato sia i corpi che le menti. Che altro potevano fare le donne, escluse dalla cultura e dalla vita pubblica, se non interiorizzare e incorporare la rappresentazione maschile del mondo? Incunearsi nei ruoli loro imposti, per sopravvivere, ma anche per strappare qualche potere e piacere? Riconoscere che la vittima parla la stessa lingua dell’aggressore, come ha fatto il femminismo fin dagli anni Settanta, vuol dire avviare una pratica di liberazione da modelli profondamente radicati, in cui in qualche modo le donne hanno creduto e che hanno perfino amato, una pratica che non può non toccare anche le formazioni psichiche immaginarie più profonde. La “presa di coscienza” riguarda entrambi i sessi, dal momento che anche gli uomini hanno ereditato una costruzione di genere, quale è la virilità, in tutte le sue forme, invisibili e manifeste».
di D.M.