Venerdì, 19 Aprile 2024

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La cara estinta

Editoriale. La politica a Città di Castello, dopo anni di accanimento terapeutico, ha esalato l’ultimo respiro.

silvia romano2

A Città di Castello c’è stata una scomparsa di cui nessuno ha rivendicato il cadavere né ha celebrato il lutto: la politica. Nemmeno i parenti più stretti si sono fatti avanti per rivendicarne le spoglie e dare degna sepoltura alla cara estinta: partiti, sindacati, associazioni di categoria; gli stessi ex militanti sono entrati in uno stato di distanziamento elettorale permanente. La politica è estinta dunque, ma nessuno ne ha dato l’annuncio, così pare che ancora essa sia in vita, mentre si tratta di un morto che cammina.

Non che le istituzioni siano scomparse, anzi, apparentemente, tutto funziona come prima: le istituzioni politiche, il Comune, le sue partecipate, i sindacati, le associazioni di categoria, la Sanità, tutti sono al loro posto, ma girano come rotelle che non appartengono più a un organismo senziente e pensante in grado di imprimere un ritmo e indicare una direzione. Ognuna vive per sé, nella speranza che la serie di concatenazioni che la tiene in vita non si affievolisca. Gli interessi delle varie categorie sono pur essi sempre vivi, ma non fanno più parte di un programma organico: gli agricoltori, per esempio. Una volta erano la spina dorsale di partiti e sindacati e a essi si appoggiavano; oggi hanno legato le loro sorti alle multinazionali, che una volta erano le nemiche giurate. Ognuno si consegna al miglior offerente. Anche gli operai si sono polverizzati in una serie di appartenenze precarie come i loro lavori. I giovani vivono una marginalità ininfluente e i sindacati sono monopolizzati dai pensionati.

A fronte dello sconquasso cittadino della politica e dei partiti, vive un radicato impegno solidaristico e culturale da parte di una miriade di associazioni di volontariato, che hanno ereditato e messo a frutto la voglia di interessarsi agli altri e al bene comune. Ma anche qui regna “l’anarchia”. Ognuno danza la propria danza: chi si impegna mella Potezione civile, difficilmente fa altro; chi fa attività teatrale o educativa di altro genere, difficilmente lo si trova altrove. E tutte ugualmente si tengono a debita distanza dalla politica, che rimane lontana dal loro orizzonte di interesse o di contatto. L’aspetto più evidente di questa “anarchia” è il pullulare di iniziative di vario genere, che si sovrappongono l’una all’altra per mancanza di coordinamento e di comunicazione circolare tra i vari soggetti. Così il popolo dei pochi volonterosi, che ancora cerca di interessarsi e di partecipare alle iniziative pubbliche, finisce per essere conteso tra le parti.

Manca una prospettiva comune, un orizzonte inclusivo, che è poi ciò che noi chiamiamo “politica”. È inutile puntare il dito contro qualcuno. Le responsabilità ci sono, ma esse sono iscritte all’interno di un clima culturale che ha idolatrato i soldi e l’individualismo; ognuno vive per sé e rinserra sempre di più i suoi interessi allo stretto circuito familiare. Basti considerare che gli addetti alla politica, una volta un vero e proprio esercito, oggi sono ridotti a un numero di membri che si contano sulle palme delle mani (vedi scheda). Continuano a chiamarsi partiti, ma in realtà si tratta di “appartamenti sfitti”, presidiati da poche persone che, invece di aprire le porte per attrarre clienti, sono diventate affittacamere per trarne qualche profitto, come si fa con i saldi di fine stagione: finiti i fondi di magazzino, si chiude.

La situazione è a dir poco fluida, liquida come sosteneva Bauman. I contatti sulle chat hanno sostituito le tessere: tanti partecipanti che dialogano attraverso una piattaforma informatica, significa tanti iscritti al partito e/o associazione. Da ciò consegue che i programmi, le scelte per la città e per il bene pubblico viaggino nell’etere, ma hanno allo stesso tempo la consistenze del loro vettore. Una volta si faceva un solo lavoro per tutta la vita, così come si apparteneva a un solo partito; tutto ciò non esiste più.

Oggi “l’appartenere” definitivamente a una realtà che dia identità e senso è visto come una prigione: si fanno più lavori così come si attraversano più appartenenze politiche. Il collante tecnologico ha sostituito quello ideologico. Il personale politico, che ha in mano questi residuati “bellici”, i partiti, o i moderni “cinquettii” tecnologici, e quindi il potere, è ridotto drasticamente a poche decine di persone, una piccola “oligarchia” composta dai 4 o 5 soggetti più influenti di ogni formazione. Nelle mani di circa 70, forse 80 persone passano le decisioni collettive più significative, senza un reale controllo da parte dei cittadini.

Per forza di cose, questo gruppo di piccoli “oligarchi” finisce per essere autoreferenziale in mancanza di contendibilità interna, ovvero in assenza di quel confronto di idee e di prospettive, che solo una più robusta partecipazione potrebbe garantire

. La politica, così, è diventata una occasione occupazionale: sostituisce il lavoro che non c’è, serve per lo scambio di favori in cambio di altri favori a catene di Sant’Antonio legate a doppio filo alla Pubblica Amministrazione; gestisce soldi, professioni, ma non prospettive o scelte di valore per la città.

Il lutto, tuttavia, deve essere celebrato, affinché le aspirazioni al rinnovamento, che pur ci sono dentro e fuori dalle istituzioni, possano trovare quella coesione e quella unità d’intenti capaci di catalizzare una società civile che da tempo aspetta segnali di risveglio. Ma, come si dice in questi casi: non fiori, ma opere di bene. ◘

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Di Antonio Guerrini


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