El salvador .
A neppure una settimana dal XXX° anniversario degli accordi di pace che nel 1992 posero fine alla guerra civile in El Salvador fra il governo civico-militare e la guerriglia del Fronte Farabundo Martí ed esattamente 90 anni dopo la sollevazione dei contadini capeggiata da Agustín Farabundo nel '32 (repressa nel sangue dal generale Maximiliano Hernández), si è svolta il 22 gennaio scorso nella capitale salvadoregna la cerimonia di “beatificazione” del gesuita Rutilio Grande, primo sacerdote ad essere ucciso nel minuscolo Paese centroamericano (nel marzo del 1977) dalla Guardia Nacional, su ordine dei latifondisti che lo additavano come “un comunista dalla parte dei campesinos”. Con lui nell’agguato, consumatosi nella zona rurale di Aguilares, perirono crivellati di colpi nella stessa auto un anziano e un quindicenne. Anch’essi sono stati dichiarati “beati”; insieme al missionario francescano di origine italiana Cosma Pessotto, ammazzato in una chiesa più tardi nel giugno '80 a guerra civile già iniziata.
Alla funzione, presieduta dal cardinale salvadoregno Rosa Chávez, non ha assistito il giovane presidente twittero Nayib Bukele che già aveva provocatoriamente cancellato la precedente commemorazione della fine del conflitto. Bukele ha preferito partire per Ankara per sottoscrivere un inedito accordo commerciale col suo omonimo turco Erdogan. Oltre a promuovere negli Emirati Arabi Uniti la sua folle politica sul bitcoin, che ha convertito (primo Paese al mondo) in cripto-moneta di libera circolazione nel settembre scorso (accumulando già 20 milioni di dollari di perdite per l’erario pubblico).
Fu un pesante tributo di sangue quello pagato negli anni '70 e '80 da quella parte di Chiesa salvadoregna in odore di Teología de la Liberación: 20 sacerdoti (fra cui i sei gesuiti dell’Università Centroamericana), quattro monache e centinaia di catechisti di un popolo eminentemente cattolico. Fino al sacrificio rimasto impunito dell’arcivescovo di San Salvador Óscar Arnulfo Romero il 24 marzo 1980 mentre diceva messa. Sì, proprio lui che era stato proposto in Vaticano come metropolita dai suoi colleghi vescovi reazionari per essere egli stesso un conservatore; a perpetuare il secolare schema coloniale di una oligarchia con i suoi due bracci operativi, militare ed ecclesiastico.
Ma il tormentato e scorbutico mons. Romero aveva paradossalmente allora come unico amico (nonché confessore) il padre Rutilio Grande, che aveva scelto come “cerimoniere” per il suo insediamento alla massima carica religiosa. È l’assassinio di Rutilio, neanche un mese dopo, a spalancargli definitivamente gli occhi sulla realtà della repressione nel suo Paese, convertendolo nella “voce dei senza voce” per una riconciliazione nazionale fondata sulla giustizia sociale.
Da quel momento Romero ha avuto violentemente contro la Destra, l’esercito e tutto l’episcopato locale (tranne mons. Arturo Rivera y Damas). A Roma invece papa Paolo VI lo ricevette incoraggiandolo. I problemi gli si complicarono anche in Vaticano dall’ottobre '78 con l’avvento al pontificato di Karol Wojtyla e il suo piano di azzeramento della sovversiva opción preferencial por los pobres latinoamericana (che spazzò via nell’arco di qualche anno). La curia romana cominciò a giocare apertamente contro il primate salvadoregno fino a chiederne l’esautoramento con l’invio di un amministratore apostolico. Giovanni Paolo II non avallò quel provvedimento. Ma nel maggio '79 quando ricevette Romero per la prima volta nella Santa Sede lo rimproverò severamente: “devi dialogare con il Governo” gli intimò. E Romero: “ma Santo Padre ammazzano la nostra gente…”. Fu una vera e propria delegittimazione che isolò del tutto Monseñor nel suo Paese. Fino al suo ammazzamento (dopo appena tre anni da arcivescovo) orchestrato dal fondatore della Destra di Arena, nonché degli squadroni della morte, l’ex maggiore Roberto d’Aubuisson. Anche i suoi funerali furono “profanati” con l’uccisione di decine di fedeli nella piazza della cattedrale.
È all’indomani di quel magnicidio che, di fatto, in El Salvador si scatenò il conflitto civile che si sarebbe prolungato per dodici lunghi anni con un saldo di 75mila vittime.
Nel marzo 1983 nel suo primo viaggio in Centroamerica (che seguimmo sul posto) al papa polacco toccò essere ricevuto, fra gli altri, anche da d’Aubuisson, in quel momento presidente del Parlamento. Ma al suo arrivo alla capitale San Salvador, violando ogni protocollo, volle prima di ogni cosa andare a pregare sulla tomba di Romero. Forse in segno di riparazione. Di certo per la preoccupazione che la figura di mons. Romero non fosse scippata dalla Sinistra politica. “Mons. Romero è nostro, è della Chiesa”, ebbe a ripetere più volte negli anni successivi.
Nel suo secondo viaggio in El Salvador (nel febbraio '96), in una riunione con l’episcopato locale, Giovanni Paolo II volle sondare gli umori sul processo di canonizzazione di mons. Romero, avviato dal suo successore Rivera y Damas due anni prima. In un primo momento nessuno fece obiezioni; ma a un certo punto uno dei vescovi storicamente avversi all’arcivescovo martire prese la parola e si avventurò ad attribuire a lui la responsabilità dei 75mila morti della guerra civile…
Sta di fatto che quella pratica rimase chiusa nel cassetto in Vaticano per tutto il resto del papato di Wojtyla, così come del suo successore Joseph Ratzinger (nonché “inquisitore” da prefetto della Congregazione della Fede quale per lui era stato). A tenerla bloccata nella curia romana fu, primo fra tutti, il cardinale colombiano Alfonso López Trujillo, strettissimo consigliere del papa polacco e da lui nominato (all’inizio del suo pontificato) alla guida dei vescovi del Centro e Sudamerica (Celam) proprio per azzerare la Teologia della Liberazione (allora in rapida espansione nel subcontinente).
C’è voluto l’avvento sul soglio di Pietro del primo papa latinoamericano (nonché gesuita) per riprendere quel percorso. Appena un mese dopo la sua elezione, papa Francesco, fra le sue priorità, diede disposizione al postulatore vaticano di riprendere in mano quel dossier, compiendo un vero e proprio atto di risarcimento nei confronti del prelato salvadoregno. Beatificato a San Salvador due anni dopo (nel maggio 2015) mons. Romero veniva dichiarato “Santo” a Roma dallo stesso Bergoglio nell’ottobre 2018; guarda caso insieme a papa Paolo VI, l’unico che l’aveva sostenuto.
Bene ha sintetizzato recentemente il gesuita Martin Maier (attuale direttore in Germania di Adveniat-America Latina) affermando che “la canonizzazione di mons. Romero costituisce il paradigma del pontificato di papa Francesco”. Nel suo intento di riscattare il Concilio Vaticano II.
Ma non poteva finire lì. Per completare l’opera di riparazione anche padre Rutilio Grande, l’ispiratore di colui che poi divenne San Romero d’America, è stato dichiarato a tempo di record beato “in odio alla fede”, cioè dire da cattolico martirizzato per mano di stessi cattolici.
Lo stesso papa Francesco, nell’Angelus domenicale in piazza San Pietro, così si è riferito a Rutilio e agli altri tre beatificati il giorno precedente nella capitale salvadoregna: «martiri della fede che sono stati al fianco dei poveri testimoniando il Vangelo, la verità e la giustizia fino all’effusione del sangue; il loro eroico esempio susciti in tutti il desiderio di essere coraggiosi operatori di fraternità e di pace». ◘
di Gianni Beretta