Martedì, 16 Aprile 2024

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DANTE E LA POLITICA DEL SUO TEMPO

Intervista a Franco Cardini, medievalista, scrittore, studioso di fama internazionale.

la commedia un poema del risveglio mese settembre 2021 1

Franco Cardini, studioso di fama internazionale, è conosciuto al pubblico italiano perché fa parte del Comitato scientifico e partecipa ai programmi di “Rai Storia”, dedicata agli avvenimenti più significativi della nostra epoca. Attualmente è impegnato nella celebrazione del settimo centenario dalla morte di Dante, che è avvenuta proprio in questo mese. Lo distogliamo dal suo lavoro per porgergli alcune domande sulla figura dell’Alighieri, il suo rapporto con la politica, con la Chiesa e sulla sua vicenda di esule.

Nell’esperienza di Dante la politica ha un ruolo importante. Quale significato aveva per lui la partecipazione alla vita politica della città?

«Dante è un uomo del suo tempo, a cavallo fra XIII e XIV secolo: è un aristocratico di famiglia non ricca in un mondo cittadino nel quale imprenditori, banchieri e mercanti stanno ormai emarginando la vecchia nobiltà di possessori fondiari e di guerrieri; è un guelfo ben cosciente del ruolo dell’impero nella società del tempo e fautore di una visione civile secondo la quale nella Cristianità latina l’alto clero e la compagine papale debbono contenere le loro pretese egemoniche; è un uomo della città comunale fiera dei privilegi giuridici accordati dagli imperatori romano-germanici e che costituiscono la sostanza delle sue “libertà”, sentite sempre come valore rigorosamente comunitario e concepite come un dovere prim’ancora che come un diritto».

L’esilio per Dante è stata una frattura sia personale che sociale. Quali sono le forze avverse che gli hanno impedito di ritornare a Firenze e di essere reintegrato nella vita politica della città?

«Nei primissimi anni del Trecento Firenze è una grande potenza economica, finanziaria e mercantile, quindi anche diplomatica: ma stenta ad affermarsi anche come potenza militare e ha bisogno per questo di un appoggio che sono la casa reale di Francia e quella angioina di Napoli, a essa collegata, a fornirle. Papa Bonifacio VIII, il quale alla fine fallirà nel suo disegno egemonico, è in quel momento favorevole a un prevalere nel “Regno d’Italia” (vale a dire nell’Italia centro-settentrionale, la corona della quale spetta all’imperatore romano-germanico che in quel momento è però in crisi) della “parte guelfa” che si presenta come specialmente fedele al Soglio pontificio, ma in realtà è direttamente o indirettamente agli ordini delle monarchie capetingia e angioina. I “guelfi neri” fiorentini, molto spesso ex-ghibellini che hanno scelto di passare dalla parte opposta, accettano di costituire il nerbo delle forze collaborazioniste al servizio dei franco-angioini. Dante è noto per essere un avversario di tale linea: per questo, ambasciatore presso il Papa, viene prima trattenuto con pretesti e poi raggiunto da una condanna che lo colpisce quando sta per rientrare in patria. Che Dante fosse innocente di tutte le accuse mossegli, non è ancora né chiaro né sicuro; che la sua condanna abbia avuto comunque un movente e un significato politici è cosa certa».

Dante non è tenero nei confronti della Chiesa e della gerarchia. Quali critiche rivolge e perché?

dante e la politica del suo tempo settembre 2021 5«Il Dante che scrive la Commedia è un esiliato che non a torto attribuisce alla Santa Sede gran parte delle sue sventure: non è certo un critico sereno e imparziale. Ma la sconfitta politica acuisce in lui uno sdegno ch’egli provava senza dubbio seriamente: quello rivolto contro la venalità delle istituzioni ecclesiastiche che ammantavano di alibi teologici e giuridici la loro pesante fiscalità (le decime) e la loro politica di abuso religioso (le indulgenze e le cariche ecclesiali simoniacamente attribuite per denaro). Dante assiste all’alba della Modernità occidentale, fondata sul desiderio insaziabile di arricchimento: e la condanna con chiarezza e rigore».

Il XIII secolo ha visto fiorire l’epopea francescana e i suoi tormentati esiti. Come ha giudicato da credente l’esperienza e la figura di Francesco d’Assisi?

«Ho al riguardo scritto un libro edito da Laterza e in libreria in questi giorni: L’avventura di un povero cavaliere del Cristo. Vi si parla di Francesco e anche di Dante come uniti in un’esperienza che Dante stesso ha esplicitato nell’XI canto del Paradiso: la scelta della Povertà, che implica una lotta senza quartiere contro la società segnata dall’egemonia della sete di danaro e contro l’avvento progressivo di un mondo nel quale il possesso e la gestione della ricchezza siano il valore primario nei rapporti sociali e civili».

Il crollo del papato e l’esilio ad Avignone ha spinto Dante a riflettere sull’attualità della politica del suo tempo? In quale modo?

«Dante, che pur non ha mai amato né apprezzato la Roma pontificia del suo tempo, ha pur sempre chiaro il fatto che la città di Roma è un simbolo di maestà e di potenza che si riflette sul mondo in termini di affermazione di giustizia e di pace: egli, come tutti nel suo tempo, non ha per nulla il senso che l’impero romano sia un’esperienza finita; per lui l’impero continua tanto in Oriente con i basileis bizantini, che sono eredi diretti degli Augusti romani, quanto in Occidente dove le successive Translationes Imperii dai Carolingi agli Ottoni, da essi ai Salii e quindi agli Svevi hanno garantito a loro volta alle istituzioni imperiali continuità. Dante crede, come tutti al suo tempo, a quella “donazione di Costantino” che, secondo un falso documento elaborato nell’VIII secolo, avrebbe ceduto Roma e le insegne imperiali al vescovo dell’Urbe (il “falso” fu comprovato come tale nel XV secolo dall’umanista Lorenzo Valla); ma, credendolo autentico, lo condanna. Ciò nonostante egli ritiene che il Papa non possa abbandonare quella Roma che Costantino gli ha affidato, sia pure a torto: e dopo Clemente V incita i cardinali riuniti in conclave a eleggere un nuovo pontefice che sia in grado di rientrare in Roma. Sarebbe stata appunto una scelta politica importante. Ma in quel tempo non ve n’erano le condizioni: difatti il Papa rimase in Avignone per sette decenni circa e il suo ritorno a Roma aprì un periodo di scismi che perdurò per altri settant’anni e fu una delle cause, sia pur indirette, della Riforma protestante». ◘

di Achille Rossi


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