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Mosul, Hiroshima d'Iraq

96 annii altrapagina aprile 2021

Lucia Goracci, giornalista, ha iniziato la sua attività in Rai, nella redazione del TGR Sicilia, poi è stata inviata per il Medio Oriente al Tg2, è diventata conduttrice del Tg3 notte. Ha lavorato in America latina e ha documentato la guerra civile libica. Dal 2013 lavora a RaiNews24 come inviata per tutta l’area del Medio Oriente

 

 

 

Lucia Goracci, inviata della Rai in Medio Oriente, ha seguito passo a passo la visita del Papa in Iraq, che sembra aver avuto uno straordinario valore simbolico.

Può sintetizzare le sue impressioni su questo evento?

«È stato un viaggio di straordinaria rilevanza sotto il profilo religioso e umanitario, ma anche sotto quello politico. È stato innanzitutto un gesto nei confronti di un Paese che dal 1991, anno in cui fu avviato un embargo internazionale che gravò soprattutto sulla popolazione, non conosce un giorno di normalità e che da quando gli americani intervennero militarmente per rovesciare Saddam Hussein vive in conflitto permanente. È un Paese verso il quale l’Occidente ha delle responsabilità politiche e morali molto pesanti, delle quali papa Francesco, autoproclamandosi pellegrino penitente (definizione che ho trovato straordinariamente evocativa) si è fatto carico».

L’Iraq è un Paese da risarcire?

«Certamente. Non la sua classe dirigente, che probabilmente non rinuncerà a uno solo dei vizi dai quali è afflitta. Il viaggio di papa Francesco servirà forse a redimere la popolazione, verso la quale ognuno di noi ha delle responsabilità. Papa Francesco è andato per i cristiani, sicuramente, ma è andato per tutti, consapevole che una minoranza non può star bene se non sta bene tutto il Paese e non si può sanare il settarismo, di cui i cristiani hanno fatto le spese. Francesco lo ha fatto con dei gesti molto importanti perché è voluto andare anche laddove i cristiani non ci sono: nel sud sciita e nella Mosul sunnita. La visita a Mosul è stata la tappa più rischiosa per il Papa. Lì il Califfato si è insediato e ha resistito più a lungo e la guerra di risposta è stata più distruttiva. Mosul ovest, dove non ci sono cristiani da molto tempo, è stata distrutta prevalentemente dalle bombe della coalizione e rappresenta, a mio parere, la ground zero dell’Iraq, per la distruzione immane che è stata prodotta. Monsignor Louis Sako, arcivescovo di Babilonia dei Caldei, originario di Mosul, l’ha definita l’Hiroshima d’Iraq. Papa Francesco ha voluto spingersi fin là, dove l’opera degli sminatori non è ancora completata, ha posato lo sguardo su luoghi dove nessun grande della terra ha osato arrivare, anche per ragioni di sicurezza. Mosul è negletta, è la città che ha festeggiato i natali di Saddam dopo la sua dipartita, ma le persone non sono tutte così e papa Francesco, andando dove non ci sono cristiani, ha voluto lanciare un segnale a quella parte di popolazione sunnita che oggi è ingiustamente associata all’Isis, per riscattarla in qualche modo da quello stigma».

76Può raccontarci l’incontro tra Francesco e al Sistani? Cosa si sono detti questi due grandi leader religiosi e quali argomenti hanno toccato?

«L’incontro con al Sistani era il tassello mancante nel progetto interconfessionale di papa Francesco, che lo ha portato alla firma del documento di Abu Dhabi con l’imam della moschea di al Azhar, al-Tayyeb. Incontrare gli sciiti è stato un passo molto coraggioso, perché nella narrativa globale a guida cultural-politica americana essi sono i cattivi, quelli che sono in combutta con l’Iran, sono le milizie che spadroneggiano (in parte è vero) in Iraq. Nessun papa era andato al cospetto di un ayatollah sciita, ma Francesco non poteva non farlo, se voleva proteggere i cristiani; evidentemente bisogna sempre parlare con una maggioranza quando ci si vuol prendere cura di una minoranza. Al Sistani è un personaggio sui generis, perché ha sempre combattuto contro l’ingerenza politica del vicino Iran sui destini dell’Iraq; inoltre differisce profondamente, dottrinalmente, dalla tradizione sciita iraniana. Tanto Khomeini ha ritenuto che la religione dovesse influenzare la politica, quanto al Sistani ha predicato una separazione delle due sfere e ha derogato a questo suo credo solo per il bene del Paese, non solo degli sciiti. Quando l’Isis è dilagato sulla piana di Ninive, ha lanciato una Fatwa per incitare gli sciiti ad andare a combattere e difendere tutto il popolo, comprese le minoranze. Recentemente è bastata una sua pronuncia contro la repressione delle proteste di piazza a far cadere il governo precedente. Al Sistani parla poco di politica, ma quando lo fa ha una forte influenza. Questo viaggio del Papa è straordinario e non è un caso che Biden abbia impiegato quattro giorni per dire qualcosa, in fondo banale, su questo gesto».

Perché si è soffermato sulle minoranze perseguitate?

«Invocare la fratellanza ha senso in un Paese fratricida come l’Iraq; la sua malattia è il conflitto interno, settario, intra-confessionale e identitario che ne domina la vita politica. L’affermazione “siamo tutti fratelli” è un mettere il dito nella piaga della sua Storia recente. Era inevitabile che portasse questo messaggio e chi meglio di lui?

78 11Tra le minoranze perseguitate c’è certamente quella cristiana, sin dalla caduta di Saddam Hussein. Prima il problema si chiamava Al Qaeda, ora si chiama Isis, ma le cose sono cambiate poco. L’Isis ha prodotto un aggravamento della situazione perché, oltre ad aver determinato la fuga dei cristiani, ha fatto sì che questi ultimi non volessero neanche tornare. Gli yazidi sono stati una costante nei discorsi di papa Francesco o addirittura la motivazione principale del suo viaggio in Iraq. Lui stesso ha dichiarato di aver deciso questo viaggio, fortemente sconsigliato da tutti, dopo aver letto il libro di Nadia Murad, una delle ex schiave del sesso dell’Isis, che ha vinto il premio Nobel per la pace grazie a questo straordinario e coraggioso racconto. In Occidente si rischia di dimenticare queste storie, questi volti, le donne come Nadia, dimenticando al contempo la condizione dell’Iraq».

Il Papa ha incontrato a Erbil il papà di Alan Kurdi, il bambino morto su una spiaggia turca. Che cosa l’ha colpita?

«Ho parlato al telefono con il papà nei giorni successivi alla morte del bambino, nel 2015. Quest’uomo è originario di una città piena di significato, Kobane, la città curda siriana che ha sconfitto per prima il Califfato grazie al coraggio della sua gente, dimostrando che non era invincibile, e che cinicamente è stata lasciata alla mercé dell’attacco turco dagli americani e in parte anche da noi. Kobane custodisce la tomba del piccolo Alan Kurdi e papa Francesco non ha voluto tralasciare neanche il capitolo terribile degli esuli. I migranti si vedono violati due diritti: quello di non partire e anche quello di partire regolarmente, non dovendo mettere le proprie vite in pericolo sui barconi che affondano».

Può raccontarci la devastazione dell’Isis perpetrata a Qaraqosh e la commozione di papa Francesco di fronte alla cattedrale? Quali sono i sentimenti di queste popolazioni che hanno subito violenza e morte?

«Qaraqosh è un posto emblematico perché è l’unica città della piana di Ninive dove i cristiani sono stati sempre la quasi totalità della popolazione ed è anche la sola città in cui una parte dei profughi sta tornando. Ho riportato con piacere la frase che ha pronunciato il papa a Mosul: “Voi cristiani siete essenziali alla comunità irachena, siete come quei tappeti preziosi della vostra tradizione che se si tira un filo si rovina tutto l’insieme”; e l’attesa di migliaia di persone a Qaraqosh, con i loro abiti colorati e tradizionali, sembrava proprio – a un colpo d’occhio dall’alto – quel tappeto di cui papa Francesco aveva poco prima parlato. È lì che il Papa ha toccato il tema cruciale del mercato delle armi».

È ancora possibile una ricostruzione del Paese, al di là della corruzione e della violenza?

«Noi dovremmo aiutare l’Iraq e non trattarlo come un Paese insanabile, teatro di scorribande, di guerre per procura tra Iran e Usa. Papa Francesco ci ha provato, dando fiducia al dispositivo di sicurezza iracheno e agli iracheni. Bisognerebbe seguire proprio questo gesto evangelico del Papa; ricordiamo che prima di lui nessun capo di Stato o ministro degli esteri ha visitato l’Iraq, se non recandosi nelle basi militari e fermandosi poche ore. Lui ha messo la sua sicurezza nelle mani degli iracheni, anche se la classe dirigente irachena ha molte colpe e i giovani sognano di lasciare il Paese. L’Occidente investe molto nelle guerre che a volte sono inevitabili, come quella all’Isis, ma non investe nel dopoguerra, quando si decidono le sorti di un Paese: la ricostruzione della pace o un’eterna instabilità». ◘

Di Achille Rossi


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