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Jenin Jenin

Israele. Il film che scuote le coscienze di Israele
96 annii altrapagina aprile 2021

Un vecchio ferito, sopravvissuto al massacro del campo profughi di Jenin, piange: «Hanno ucciso i nostri bambini (…). Non sapevo dove camminare. Una montagna di macerie. Bambini morti, case distrutte. Facevano volare i caccia F11 contro i lanciatori di pietre. Ci hanno trasformato in animali, in cani senza il diritto di abbaiare. Anche un cane, se non gli dai da mangiare, ti si rivolta contro! Ma tu pensi che servirà a qualcosa questo tuo documentario?» - Un medico soccorritore cerca di descrivere il bombardamento israeliano: «Cadevano bombe, missili, sparavano con armi pesanti. Perché sparare su un bambino o una vecchietta o su un giovane con le mani alzate? (…) “Amid è morto”». Un medico piange. «Io medico e padre non sono stato capace di soccorrere mio figlio!» - Una bambina, poco più che adolescente, con determinazione e fermezza: «Darei la mia vita per il campo di Jenin! Lo hanno distrutto, ma noi lo costruiremo. (…) Il nostro Paese, la nostra terra. I bambini rinasceranno e noi saremo ancora qui. Non abbiamo paura! Mi hanno distrutto ogni ambizione, che senso posso dare, ora, alla mia esistenza?» - Un gruppo di persone con il camice bianco che ricompongono mucchi di cadaveri per la sepoltura. Un uomo che non sa trattenere il pianto: «Hanno impiegato bulldozer da 80 tonnellate per distruggere tutto. Quello che mi ha fatto soffrire di più sono i bambini che cercavano la loro madre. Li prendevamo in braccio e li si portava con noi. Non dicevano una parola». - Qualcuno chiede a un bambino, forse di 6 anni, dove è suo padre. E lui, in silenzio, indica una tomba.

Il terrore

muhammadMohammad Bakri è un attore, regista e sceneggiatore palestinese. È un palestinese con cittadinanza israeliana. È conosciuto per aver avuto un enorme successo come attore e regista sia in Palestina che in Israele. Con il documentario Jenin Jenin è stato accusato di diffamazione contro l’esercito israeliano e contro Israele. Con quel documentario, che dura meno di un’ora, Bakri ha voluto dare visibilità al massacro dei palestinesi nel 2002 nel campo profughi di Jenin, una cittadina del nord della Cisgiordania occupata. Gli israeliani ritenevano che Jenin fosse un concentramento di kamikaze e hanno preso d’assalto, con un diluvio di fuoco, dal cielo e da terra, e con una violenza inaudita, il campo profughi, provocando numerosi morti e centinaia di feriti: bambini, donne, giovani e anziani (nel massacro e nelle distruzioni, nessuno conosce ancora il numero dei palestinesi uccisi). Il terrore. I palestinesi lo hanno chiamato ‘crimine di guerra’, e gli israeliani ‘lotta e difesa’ contro il terrorismo. Vedendo il film-documentario e il lago di sangue versato, dovendo discutere di terrorismo, ci tremano le labbra: no, “l’esercito più morale del mondo” (così si vantano di chiamarlo gli ebrei israeliani) non è terrorista, ma ha seminato il terrore, come in numerose altre occasioni, contro un popolo inerme! Suprematista e difensore di una sprezzante logica identitaria. “Una maschia gioventù, con romana volontà (ebraica volontà?), combatterà”, diceva la canzone. Qualcuno farà notare che in Israele il fascismo non c’entra, ma “il fascismo è azione brutale, impulso all’azione, senza mediazione della ragione”. Forse è meglio dire che in Israele si pratica una sorta di post-fascismo. O ancora meglio, scrivere che in Israele milioni di ebrei sono omofobi, razzisti, misogini (Yossi Mekelberg), o anche segregazionisti (Bezalel Smotrich), o, più elegantemente, che Israele non è una democrazia, ma semplicemente una “etnocrazia” (Oren Yiftachel).

La mannaia della censura

jenin Il 17 gennaio del 2021 la Corte distrettuale di Lod ha stabilito che tutte le copie e la distribuzione del film-documentario Jenin Jenin siano vietate in Israele. Che Bakri risarcisca di una somma di 55 mila dollari il tenente colonnello Nissim Magnagi, che solo per alcuni secondi compare nel documentario, durante il brutale assedio del campo profughi di Jenin. Il regista dovrà inoltre pagare le spese processuali (16 mila dollari). Dal 2002 Mohammed Bakri è stato insultato e calunniato in Israele e, da allora, per lui è iniziato un calvario kafkiano, che si spera terminerà dopo che l’Alta Corte di Giustizia (alla quale il regista ha fatto ricorso) avrà emesso la sentenza definitiva. Nel frattempo centinaia di registi, donne e uomini di cultura, hanno solidarizzato con Bakri e inviato proteste al governo israeliano. Alle infamie dei suoi detrattori Bakri ha risposto: «Non mi arrenderò, ho passato più tempo per difendermi dalla mia causa giudiziaria che per il mio lavoro di attore e regista: ho pagato un prezzo alto. Non ho mai chiesto la distruzione di Israele, come sostiene sprezzantemente chi mi accusa. Sento di far parte di questo Stato con tutta la complessità del mio essere un arabo-palestinese (…) Ho sempre condannato l’occupazione: è sbagliata, è illegale, e continuerò a ripeterlo. Gli ebrei israeliani sono convinti che la Cisgiordania sia parte di Israele e intendono mettere a tacere le voci contrarie a questa narrazione: ma l’occupazione è reale e non riusciranno a nasconderla».

“Orso, il kurdo”

Il 31 agosto 2002, poco dopo il massacro immane nel campo profughi di Jenin, il giornalista Tsadok Yehazkeli, del quotidiano israeliano Yediot Aharonot, ha intervistato l’autista di un bulldozer D9. L’intervistato si faceva chiamare “Orso, il kurdo”. In un delirio isterico di piacere e crudeltà, ha dichiarato: «Ho guidato per 76 ore tra le abitazioni, in un inferno di fumo, distruggendo ogni casa, anche se erano abitate, radendo ogni cosa (…) Ho trasformato il campo profughi in un campo di calcio, sono orgoglioso del mio lavoro. Mentre demolivo tutto, con il mio bulldozer, non ho lasciato vivo nessuno». L’unità dell’esercito in cui operava è stata insignita di una medaglia per il suo assalto a Jenin (denominata, da sempre in arabo, città “giardino” o “paradiso”). Per le truppe, il soldato “Bear the kurd” è diventato un eroe. Tra tanta miseria, vengono con naturalezza alla mente il grido del poeta palestinese Mahmoud Darwich, 13 anni dopo la sua morte: «È il nostro Paese – Noi gli apparteniamo – In futuro sarà il nostro Paese – Sono i nostri antenati e i nostri nipoti bambini – I nostri cuori che camminano lungo le ginestre guardando i piccoli della pernice – Circonderemo di lillà il fuoco e la cenere del nostro Paese – È il nostro Paese, noi gli apparteniamo (…)». (Dal poema Et la terra si trasmette come la lingua,1989, Ed. Sindbad. Actes Sud -). ◘

di Antonio Rolle


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