Martedì, 23 Aprile 2024

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Il rischio genocidio

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«Il governo turco non ha mai riconosciuto il genocidio armeno e ora Erdogan vuole portare a compimento quello che i suoi predecessori hanno cominciato un secolo fa». Così esordisce Antonia Arslan per descrivere la posta in gioco del conflitto per il Nagorno-Karabakh. Scrittrice di successo, conosciuta in tutto il mondo per il best seller La masseria delle allodole, da cui l’omonimo film dei fratelli Taviani, in cui racconta il genocidio della sua famiglia, ha fatto della scrittura la sua seconda vita. A lei chiediamo cosa stia succedendo nel Caucaso.

Quali sono le ragioni che hanno fatto deflagrare il conflitto?

«Le ragioni sono molto semplici. Il conflitto nasce dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma ha le sue radici in una decisione di Stalin nel 1921, all’epoca dell’acquisizione da parte della neonata Unione Sovietica delle tre repubbliche transcaucasiche: la Georgia, l’Armenia e il neonato Azerbaijan che non si chiamava così. A differenza degli azeri, musulmani, gli armeni e i georgiani erano cristiani. Mentre la situazione era in evoluzione e c’erano molti combattimenti, succede che il plenipotenziario per il Caucaso, Stalin, si fa ingannare dal nuovo padrone della Turchia, il generale Mustafa Kemal, che in seguito si farà chiamare Ataturk, il quale gli prospetta la possibilità che anche la neonata repubblica turca si converta al comunismo. Perciò sigla un accordo di pace con lui, in cui dona alla Turchia la zona del monte Ararat, monte sacro degli armeni, e poi decide i confini delle tre repubbliche caucasiche. È qui che si annida la causa del conflitto più profondo».

In che senso?

il rischio genocidio altrapagina gennaio 2021 2«Perché Stalin attribuisce all’Azerbaijan due fette di territorio abitato soprattutto da armeni e con una storia che riguarda soprattutto il popolo armeno. Si tratta dei due oblast’ (province autonome) del Naxçıvan e del Nagorno-Karabakh: il primo è più spostato verso la Turchia, ed è staccato dall’Azerbaijan, mentre il Nagorno-Karabakh ha confini comuni con l’Azerbaijan. Durante tutto il periodo sovietico la situazione resta bloccata in questo modo. Quando l’Unione Sovietica cade, il popolo del Nagorno-Karabakh, per il 90% armeno, rivendica una certa autonomia, che viene negata; allora decide di proclamare l’indipendenza. Il suo sogno era quello di annettersi alla vicina Repubblica di Armenia, senza mai riuscirci».

Si tratta quindi di un conflitto congelato dalla dominazione sovietica?

«Subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’Azerbaijan scatena una guerra nel ’92, che perde, ma che non è mai finita in realtà; è solo stata decisa una tregua, violata spessissimo. Gli armeni del Nagorno-Karabakh avevano molta paura di finire come il Naxçıvan, che dal 1920 a oggi è stato completamente svuotato della sua popolazione armena. Nel Naxçıvan non c’è più un solo armeno, né una chiesa armena, non c’è più traccia della fiorente civiltà armena che c’era in quella regione. Non solo. Nel 2006 e 2007 l’esercito azero distrusse perfino i cimiteri armeni. Lei saprà che una delle caratteristiche artistiche della cultura armena sono le grandi croci di pietra finemente scolpite che si chiamano khachkar: ebbene sono state distrutte tutte le lastre tombali con un vero e proprio bombardamento. Naturalmente gli armeni del Nagorno-Karabakh erano molto timorosi che accadesse anche a loro: per questo la guerra è rimasta congelata per tutti questi anni».

Lei ha lanciato un appello all’Europa perché intervenga contro il rischio di una nuova pulizia etnica.

il rischio genocidio altrapagina gennaio 2021 4«Certo. Perché dietro al governo dell’Azerbaijan ci sono le pressioni di Erdogan, il quale in più di un’occasione ha solennemente proclamato di voler compiere l’opera degli antenati, dicendo: “Concluderemo quello che avevano iniziato i nostri antenati”. Naturalmente allude alla tragedia del 1915, pur avendo sempre negato il genocidio. Immagini che effetto possono avere queste dichiarazioni così sinistre sugli armeni, sia su quelli che vivono nella Repubblica d’Armenia, sia sul più numeroso popolo della diaspora (6/7 milioni contro la popolazione della Repubblica di Armenia che conta neanche 3 milioni)».

Ma qual è l’interesse politico immediato della Turchia nel conflitto?

«Il popolo turco e quello azero sono molto affini, hanno due lingue simili. Intendono prima di tutto vendicarsi sul Nagorno-Karabakh dopo la guerra del ’94, ma soprattutto intendono creare un corridoio via terra tra l’est della Turchia con l’Azerbaijan e con i Paesi turcofoni e le repubbliche islamiche, ex sovietiche, dell’Asia centrale. La meta della Turchia è il suo sogno neo-ottomano, ecco perché al momento la situazione sul campo è così calda. La tregua di inizio novembre ha semplicemente stabilito un “cessate il fuoco”, ma non c’è ancora una precisa individuazione dei confini».

Parla dell’accordo raggiunto tra Russia e Turchia?

«Sì. La Russia è intervenuta quando l’ha ritenuto opportuno. Il successo militare riportato dall’esercito azero è stato supportato da circa 4000 miliziani dell’Isis trasportati in loco dai turchi. Quello che è in discussione adesso è proprio il nucleo del Nagorno-Karabakh, territorio armeno da sempre, che gli abitanti chiamano con il suo antico nome Artsakh e che ho visitato più volte: una terra meravigliosa, con bellissime foreste alternate a valli, ricca di monumenti medioevali, che in caso di ripresa della guerra non so come finirebbero».

Quindi la tregua in questo momento è prevalentemente affidata alla Russia?

«La presenza dei 5.000 soldati russi è finalizzata a questo, sono loro che al momento difendono i grandi monasteri, come quello di Dabikvank, luogo di una bellezza straordinaria, con una forza spirituale interna. Il restauro fatto da un architetto italiano e da una restauratrice belga ha riportato alla luce affreschi medioevali molto preziosi.

Il monastero è presidiato dai soldati russi e il priore ha detto che lui non si muoverà mai da lì, ma gli altri monasteri più piccoli chi li difenderà?».

Su quel territorio i turchi hanno fatto pulizia etnica: le case sono state bruciate e i cittadini espulsi: si parla di 70/100 mila persone.

«La popolazione ora è tornata indietro, non hanno più le case, sono circa 150.000 armeni. I numeri diramati dalla propaganda azera sono irreali, fantastici. Gli armeni del Nagorno-Karabakh sono 150.000 perché è un territorio montuoso e sono una piccola parte della tribù armena che è sempre rimasta in quel territorio».

Ma dove vivono se è stato tutto bruciato?

«Vivono in edifici abbandonati, tra le macerie o in edifici pubblici messi loro a disposizione. Tutta la diaspora armena si sta adoperando per aiutarli. Ho un cugino di Boston che sta realizzando delle casette prefabbricate da fornire alla popolazione sfollata, ma bisogna che siano robuste perché in quelle zone di montagna il clima è duro. Tanti stanno raccogliendo soldi, si danno da fare, c’è da riaprire le scuole, le Università. Pensi che in Karabakh c’erano sei Università».

Lei ha espresso un giudizio severo sull’Europa perché non ha fatto quanto in suo potere per prevenire e bloccare questo conflitto.

«Le pare possibile che in un’Europa che ha inventato la diplomazia non ci sia la capacità o l’intelligenza per formulare una mossa diplomatica efficace? Invece tace, dicendo che ci danno il petrolio. D’accordo, ma quel petrolio viene pagato! Possibile che in Europa nessuno abbia pensato di rivolgersi a muso duro ad Erdogan? Ha messo in piedi eserciti in Siria, in Libia, in Libano, continua a minacciare la Grecia, che poi è membro della Nato e dell’Unione Europea. Nessuno si muove. Una guerra è una guerra, lo so, e riconosco certi errori del governo armeno, ma possibile che l’Europa non abbia una voce?».

Eppure l’Italia, la Francia, la Germania, diversi Paesi del nord hanno riconosciuto il genocidio.

«Solo il Parlamento europeo si è mosso, ma non può far leggi, dà consigli. Dovrebbero predisporre qualche forma di protesta diplomatica, questa è la mia opinione».

Tra Europa e Armenia ci sono anche profondi legami culturali?

«I legami sono profondi e antichi. L’Italia nel V-VI secolo ha avuto forze armene nell’esercito bizantino. In diverse zone d’Italia ci sono resti ancora oggi visibili di insediamenti armeni, luoghi che richiamano santi armeni: per esempio San Miniato e San Biagio erano santi armeni. Ci sono testimonianze nelle chiese di Perugia, a Nardò, in Puglia, a Venezia. Gli italiani lo sanno, pensi che in Italia ci sono pochissimi armeni, perché dopo il genocidio la maggior parte riparò in Francia, e l’unica voce che si è alzata recentemente in Europa è stata quella di Macron».

Nei suoi libri La masseria delle allodole e La bellezza sia con te ha descritto l’esperienza del genocidio raccontata da suo nonno. Cosa l’ha colpita di più?

«Il genocidio non comporta solo la distruzione fisica, ma anche la perdita della patria e la cancellazione dei ricordi. La Turchia ha cancellato 150 mila nomi di persone, i nomi di luoghi, di città, di montagne, di fiumi. La città da cui proveniva la mia famiglia si chiamava Karpert e adesso si chiama Elagik. Hanno cambiato persino il nome latino di certi animali: Vulpis anatolica anziché armeniaca… È stata una cancellazione della cultura, una tabula rasa».

Ritiene che l’idea di un nuovo impero ottomano perseguita da Erdogan abbia qualche possibilità di riuscire?

«Io penso di no, perché c’è una cosa che rema contro di lui, ed è la crisi della Turchia stessa: il suo potere è seduto su un vulcano in eruzione. Gli studenti dell’Università di Istanbul sono in agitazione da tre mesi, attuano proteste silenziose, ma ferme: ad esempio, si presentano tutti i giorni sotto il rettorato restando in piedi in silenzio. Erdogan vuole imporre rettori scelti da lui e non dal corpo docente universitario e cerca di combattere questa resistenza interna che non è solo di intellettuali e studenti. E poi c’è una grave crisi economica in atto. Ha un esercito potente, ma le fondamenta sono sempre più fragili. Per di più tenere aperti tutti questi fronti non è facile». ◘

Di Antonio Guerrini


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