Speciale Sanità
Se si guarda il sito della Regione in cui c’è la mappa dell’Umbria colorata con differenti tonalità a seconda di come il coronavirus ha colpito nelle varie zone, Città di Castello è segnata di un rosa acceso appena sotto la gravità del rosso che segna i comuni capoluogo di Terni e Perugia, i più colpiti in termini assoluti. Al momento in cui scriviamo ci sono 170 persone positive e si sono registrati 25 decessi. Numeri che tengono il capoluogo dell’Altotevere al di sotto della media regionale. In questo comprensorio ci sono stati finora 26 casi di Covid ogni mille abitanti; la media dell’Umbria è invece di oltre 30 casi ogni mille residenti. Le cose da queste parti sono andate un po’ meglio, ma la curva si è alzata così tanto da non poter giustificare alcun abbassamento della guardia. Anche perché la guardia non è stata affatto tenuta alta per parecchi mesi, nonostante le apparenze. Sergio Luzzi Galeazzi è medico di medicina generale a Terni, ma l’esperienza che racconta nel colloquio che ha intrattenuto con noi è quella dei tantissimi esponenti del personale sanitario sparsi sul territorio regionale che hanno lavorato con una abnegazione eroica ma sono stati spesso lasciati soli nell’affrontare rischi, e sono rimasti inascoltati nonostante la loro esperienza sul territorio fosse preziosa per fronteggiare il virus. Vale la pena ascoltarlo.
Sono due le questioni principali, e sono racchiuse in diverse email che Luzzi Galeazzi ha inviato in lungo e largo – ai vertici della Sanità regionale, al suo sindacato di categoria, alla Protezione civile e a virologi di fama onnipresenti in tv – per segnalare come con pochi accorgimenti si sarebbe potuto lavorare e curare meglio. Ma intanto: chi è Sergio Luzzi Galeazzi? «Ho 65 anni, di cui 41 di servizio, e lavoro a Terni in uno studio medico associato in forma di cooperativa, la Medipiave, di cui sono presidente. Siamo otto medici, più altri quattro che ruotano per la continuità assistenziale, quattro impiegate amministrative e due infermiere. In tutto abbiamo 11 mila assistiti, che rappresentano il dieci per cento dell’intera popolazione cittadina».
«Il 21 marzo ho blindato lo studio: niente sportello, niente accessi spontanei, solo visite programmate a distanza di un’ora l’una dall’altra per evitare incroci di persone nei locali. Il problema è che eravamo subissati di richieste. Da un lato c’era la paura del virus, dall’altro le patologie ordinarie e la richiesta di prescrizione di ricette che in condizioni di necessità di distanziamento è diventata un problema: la ricetta va consegnata alla persona interessata, che poi con il cartaceo va in farmacia e prende quello che le occorre. Una catena che si potrebbe accorciare agevolmente; questo garantirebbe risparmi di tempo e risorse per tutti, e per di più la messa in sicurezza degli ambulatori, fattore non secondario in tempi di pandemia». Per questo Luzzi Galeazzi è tornato in sella a quello che da anni è un suo cavallo di battaglia: la dematerializzazione pura delle ricette, tanto più cruciale oggi. Ha scritto ai vertici della Federazione dei medici di famiglia, la Fimmg, al Direttore generale della Sanità umbra Claudio Dario, e infine anche al commissario per il coronavirus in Umbria, Antonio Onnis. Senza risultati. «Io – dice – non capisco questa ritrosia nell’innovazione se non con la necessità di qualcuno di mantenere rendite di posizione. In Trentino la ricetta dematerializzata è una realtà dal 2016. Funziona così: il medico prescrive i farmaci e invia la ricetta direttamente al fascicolo sanitario elettronico, le farmacie di tutto il territorio possono accedere direttamente al fascicolo e l’assistito può prelevare i farmaci prescritti semplicemente presentando la tessera sanitaria. Qui da noi per raggiungere l’obiettivo occorrerebbe mettere intorno allo stesso tavolo Regione, Sogei (la società del ministero del Tesoro che dovrebbe curare l’infrastruttura telematica dell’operazione) e Farmaservice, ma non si riesce».
A questo punto conviene fare un passo indietro. Il 19 marzo, in pieno lockdown, la Protezione civile emette l’ordinanza 651 con la quale si dematerializzano parzialmente le ricette ma si inibisce ai medici di inviare il documento direttamente alle farmacie: la ricetta elettronica o il NRE possono essere inviati solo ai diretti interessati tramite email o sms. In Umbria si fa un ulteriore passettino in avanti. Il 16 aprile il direttore del Dipartimento assistenza farmaceutica della Usl 2, Fausto Bartolini, comunica ai medici e ai pediatri di libera scelta che in ottemperanza di un’ordinanza della Regione, «qualora il paziente non abbia confidenza con strumenti informatizzati o telefonia mobile, il medico, su indicazione dello stesso paziente, deve trasmettere l’NRE via mail alla farmacia più vicina alla sua residenza». Non siamo alla ricetta elettronica, però è già qualcosa. Ma evidentemente anche questo piccolo progresso è considerato eccessivo. Perché il 7 luglio Bartolini emette un’altra comunicazione, in cui si legge che «valutando a oggi superata la fase di emergenza, si ritiene indispensabile l’adesione alle indicazioni contenute nell’ordinanza della Protezione civile numero 651 del 19 marzo 2020». Quel documento ci dice che non solo si sono rimaterializzate le ricette, ma che il 7 luglio 2020 i vertici sanitari della Regione consideravano «superata la fase di emergenza».
Questo squaderna molti dei motivi per cui oggi stiamo messi così male di fronte al Covid. E ci porta dritti all’altro problema sollevato da Luzzi Galeazzi: i medici di medicina generale, fino a metà ottobre, non potevano commissionare direttamente i vaccini. E dire che, nonostante il 7 luglio si considerasse chiusa l’emergenza, già dal 4 agosto si cominciavano ad avere segnali. Quel giorno Antonio Onnis, il Commissario umbro per l’emergenza Covid, diramava disposizioni alle Usl e alle aziende ospedaliere «in merito alle numerose richieste di interventi domiciliari inoltrate in questo periodo per casi sospetti covid». Ciò nonostante, prima di arrivare a far decidere in autonomia e tempestivamente ai medici chi tamponare, trascorreranno ancora più di due mesi.
Si sarebbe potuto agire diversamente e meglio? Lasciamo rispondere Luzzi: «Beh, mi pare evidente: avrebbero dovuto lasciare fin da subito a noi medici di medicina generale il compito di decidere a chi fare i tamponi. Il dipartimento di prevenzione, invece di essere oberato dal commissionare i tamponi, avrebbe invece potuto e dovuto tracciare i contatti delle persone risultate positive. Diagnosi e tracciamento, funzioni fondamentali che sono saltate. Si potevano fare assunzioni e mettere in piedi un call center regionale: per avvertire al telefono le persone che hanno avuto un contatto con un positivo e invitarle a fare il tampone non occorre essere laureati in medicina! Niente di tutto questo è stato fatto. E si sono prodotti i danni che abbiamo sotto gli occhi, oltre a trattare noi medici di medicina generale come professionisti di serie B». ◘
di Fabrizio Marcucci