Venerdì, 19 Aprile 2024

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Il Preside

Scuola. Intervista a Marco Lodoli, insegnante, scrittore e analista della condizione giovanile

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Marco Lodoli da molti anni insegna in una scuola romana, luogo di lavoro, ma anche di ispirazione. Scrittore di romanzi e di racconti, è un intellettuale che osserva criticamente la società, la scuola e i ragazzi ai quali ogni giorno dedica il suo tempo, la sua passione per l’educazione e la cultura. Gli rivolgiamo alcune domande.

Alcuni anni fa, nel 2007, lei è venuto a Sansepolcro a parlare della crisi dell’educazione. In quella occasione descrisse le contraddizioni che laceravano la sua generazione, la sottocultura delle classi disagiate. Oggi, come è cambiata la scuola e l’educazione, e come si può raccontare il mondo dei divertimenti, degli spassi, delle trasgressioni, certamente seduttivo e immediato, ma sostanzialmente falso: in sostanza “una truffa”?

«La scuola è certamente cambiata in questi ultimi dieci anni. Non c’è niente di male a trasformarsi, è nella natura di ogni organismo vivente. Ma la mia impressione è che si sia imposta una logica “produttiva” di stampo anglosassone, mirata alla creazione di individui funzionali a una società poco pensante e molto operativa. In qualche modo la riflessione critica è stata espulsa dall’universo giovanile, che mai come oggi si ritrova perfettamente in linea con i valori dominanti, cioè competitività feroce e poi stordimento festivo.

È la prima volta che vedo i miei studenti – simpatici, allegri, generosi come sempre – così poco interessati all’andamento della società, così contenti di mettersi in riga alla cassa per pagare qualsiasi prodotto gli venga imposto. Ormai hanno introiettato il principio della selezione naturale; uno su cento ce la fa e bisogna combattere da soli per raggiungere quel posto, e pazienza per tutti gli altri. Tutto questo ci è proposto come meritocrazia, che è una filosofia sociale pericolosissima, crea spaccature insanabili e genera miseria e marginalità dolorosa».

L’ultima sua pubblicazione, Il Preside, è una metafora della vita, interpretata da “un antieroe dei nostri tempi”, apparentemente disturbato e un po’ folle, ma capace di sostituirsi agli studenti nell’atto di occupare la scuola, inconsapevolmente testimone dell’insensatezza educativa dei nostri giorni e dell’urgenza di un capovolgimento radicale dell’impianto formativo dei ragazzi nell’era occupata da Internet e dai suoi sacerdoti. Ma, è così?

«Il preside prova a resistere all’assedio dell’assurdo, è un tema ricorrente nella letteratura del Novecento, la sensibilità contro l’impersonalità del mondo moderno. Ha sofferto, ha capito tante cose, è arrivato quasi per caso a fare il preside – ma in realtà, se si legge bene il libro, c’è una forza misteriosa che lo ha portato fino a lì, qualcosa che somiglia al destino o forse a qualcosa di ancora più grande, un incarico sacro. Vorrebbe che la scuola parlasse all’anima de suoi studenti, vorrebbe che riflettessero sul senso ultimo della vita, sulla morte, sulla pena, sulla compassione che deve unirci gli uni agli altri. La scuola rischia di essere all’avanguardia nel processo di spersonalizzazione, una sorta di macchina in cui entrano legni grezzi, ancora umidi, ed escono parti montabili di mobili Ikea. Lui donchisciottescamente avverte le ingiustizie, la follia del mondo, la sostituzione dell’intelligenza del cuore con le pure e semplici competenze.

Gli esseri umani non debbono “funzionare”, debbono vivere pienamente la propria esistenza, e questo può accadere solo se ci sono ancora dei maestri capaci di spiegare quali sono le priorità, quali finestre aprire, dove indirizzare lo sguardo».

Il romanzo appena pubblicato conclude un ciclo di 12 romanzi iniziato nel 1999. Quale messaggio intende inviare ai suoi lettori dopo 30 anni di ricerca e di scrittura? Il radicale capovolgimento della scuola-istituzione, visto che viviamo in un mondo «ferocemente diviso tra pochi vincitori e milioni di vinti, tutti egualmente infelici?.

«Il romanzo chiude un ciclo iniziato trent’anni fa con I fannulloni. Sono dodici favole metropolitane, dodici parabole che hanno come protagonisti “i poveri”, cioè persone che non hanno quasi niente, che non hanno compreso quasi niente, e che però tendono inconsapevolmente all’assoluto. Beati i poveri, beati gli ultimi. In loro c’è più spazio interiore per far sì che passi un’illuminazione improvvisa, una grazia che sveli il mistero delle cose.

Io non scrivo, io prego. Non mi sento quasi in nulla simile ai miei “colleghi” (parola odiosa): a me di scrivere romanzi non importa niente, non è la letteratura il mio obiettivo, se mai ce ne fosse davvero uno: io ho solo avuto questo strumento dentro di me, non so nemmeno come c’è arrivato, e provo a usarlo per forzare la scatola nella quale siamo rinchiusi. Questi dodici romanzi sono dodici tappe verso un’illuminazione, verso una luce che renda meno scura la notte.

E questa illuminazione ho capito che somiglia alla leggerezza, alla quale non sono mai davvero approdato: e però così bisognerebbe essere, leggeri e innamorati, felici contro l’infelicità del mondo. E tutto questo è un contagio meraviglioso: per questo amo i maghi, i prestigiatori, gli acrobati, i camminatori solitari, i poeti».

Il Preside (eroe, pagliaccio, martire, idiota) è una testimonianza della crisi dell’educazione al tempo del Covid-19, scivolata lungo la traiettoria dell’insegnamento a distanza. Dal racconto emerge un’idea di scuola, come la vita ma migliore, che confligge con ogni impostazione istituzionale. Oggi a scuola si disimpara; da qui l’urgenza di una radicale rifondazione dell’organizzazione, delle modalità di trasmissione e dei contenuti da mettere al centro dell’attività formativa?

il preside matteo martelli«In realtà io scrivo che a scuola bisogna disimparare, cioè bisogna scrostare la mente e l’anima da tutte le sedimentazioni opache che la società contemporanea deposita. Questa è la vera svolta nell’esistenza: togliersi di dosso i pesi, le abitudini, le mode, i pensieri degli altri, le storie inutili, gli oggetti che pesano e rallentano il nostro cammino. È chiaro che la scuola deve preparare i ragazzi al lavoro (io insegno in un professionale), ma deve fare anche di più, deve aiutarli a prendere coscienza di ciò che sono, ognuno per quello che è, irripetibile e unico. E dunque si tratta di posare ciò che è inutile. E noi oggi viviamo immersi nel superfluo e nell’inutile e non vediamo più la bellezza e i rari bagliori di verità, che ogni tanto balenano all’orizzonte. Servono insegnanti bravi, è chiaro, ma che sappiano anche liberare gli studenti dalla mole di sciocchezze che ogni giorno frana loro addosso. Bisogna essere semplici, poveri nel senso evangelico, innamorati. Io ho avuto insegnanti che mi hanno spiegato cosa conta davvero nella vita, quali libri leggere, quali dischi ascoltare, dove ammirare capolavori che cambiano la direzione dello sguardo. Quando il mio professore di lettere mi consigliò A love supreme di John Coltrane e I Fratelli Karamazov, tutto è cambiato, la mia strada si è mossa e io ancora cammino». ◘

io scrivo che a scuola bisogna disimparare, cioè bisogna scrostare la mente e l’anima da tutte le sedimentazioni opache che la società contemporanea deposita

di Matteo Martelli


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