DOSSIER: Raimon Panikkar: un pensatore profetico
3 agosto 2010 - primo incontro con Panikkar: Occhi vispi su un corpo stanco. Scrutano, sorridono, si meravigliano! - “Le cose che non si possono fare, si devono fare!”
Queste poche righe sono i primi appunti fissati al volo nel mio quaderno nell’agosto di dieci anni fa, quando Achille, dopo tante nostre insistenze, aveva finalmente deciso di portarci con sé in uno dei suoi periodici viaggi a Tavertet. Da quando avevamo undici anni, il nome di Panikkar risuonava nelle nostre orecchie: citato nelle discussioni in cerchio al doposcuola, ascoltato di sfuggita ai convegni de l’altrapagina, letto nei titoli delle dispense colorate che vendevamo nei banchetti di vari incontri e conferenze. Per noi, da adolescenti, era quasi un gioco: partire col furgone e ritrovarci a questi eventi, osservare incuriosite le persone che venivano da tutta Italia ad ascoltare gli interventi, sfogliare libri su tematiche che intuivamo essere importanti e rimanere affascinate dalle parole dei relatori, che inizialmente ci sembravano difficili, ma piano piano ci sono entrate dentro influenzando profondamente il nostro modo di pensare e interpretare la vita.
Così a vent’anni, nel pieno degli studi universitari, la possibilità di incontrare di persona quest’uomo dall’aspetto mistico, di cui avevamo tanto sentito parlare, era un dono grande di cui percepivamo con forza la portata. Un viaggio in cui si andavano a intrecciare la ricerca filosofica e l’esperienza personale: partire alla volta della Spagna con Achille era – come tutte le esperienze vissute insieme – arricchimento culturale e al tempo stesso avventura.
Quando andammo, Panikkar era già malato, ma questo non gli impediva l’entusiasmo del dialogo, la voglia di confrontarsi e riflettere insieme agli altri, la capacità di rispondere alle nostre domande con parole semplici e illuminanti. Ci ospitò per cinque giorni nella sua grande casa di legno e pietra tra le montagne. Accampate coi nostri sacchi a pelo tra gli scaffali pieni di libri in tutte le lingue, tutto era fonte di meraviglia e scoperta: ci sembrava di respirare cultura e spiritualità. Per me, al secondo anno di Filosofia, fu come entrare in ciò che stavo studiando, nelle parole che leggevo nei libri, dare consistenza concreta a quel pensiero interculturale che avevo iniziato ad approfondire.
Di notte Panikkar non riusciva a dormire, per questo la mattina riposava e noi ci dedicavamo a visitare i dintorni: il borgo di Tavertet, i monti circostanti, una tappa al paese vicino per comprargli una boccetta di Ratafia, il liquore che gli piaceva tanto. Poi di pomeriggio, finalmente, salivamo nel suo studio e iniziavamo a conversare: lui era curioso e attento. Novantadue anni e ancora la capacità di meravigliarsi, di interessarsi all’altro e al mondo intorno. Discutemmo di politica, di fede, di filosofia e attualità. Ascoltammo a bocca aperta aneddoti sulla sua vita piena e spesso controcorrente. Ci chiese quali erano i nostri sogni e ne avevamo tanti, abituate com’eravamo state da Achille a coltivarne di grandi. Ci spronò a perseguirli e ci disse con semplicità che, per quanto lo riguardava, tutto ciò che aveva fatto nella vita era “essere”. Scrivevo pagine su pagine per non perdermi nulla di quelle che mi apparivano come intuizioni preziosissime.
Dieci anni dopo, di fronte alla richiesta di scrivere questo articolo, mi sono scoperta invece un po’ disillusa: hanno ancora senso per me le parole di questo filosofo? Mi parla ancora il suo linguaggio? In queste domande scorgo l’opportunità di togliere la polvere dal mio quaderno d’appunti, di riprendere in mano i suoi testi letti e riletti negli anni, per ri-cor-dare il senso e il valore del suo pensiero, di quelle verità intuite nel dialogo con lui. Verità con la "v" minuscola, come lui amava dire: mai assolute, mai possedute, perché “la verità è relazione”. Nella riflessione filosofica come nella vita, si tratta dell’importanza di riconoscere che guardiamo il mondo da una prospettiva mai completa e sempre bisognosa di entrare in contatto con gli altri – e con le altre dimensioni del reale – per arricchirsi e comprendere (intuire) la realtà. Un concetto talmente semplice da sembrare banale, eppure di fatto così radicale che aderirvi implica un cambiamento di paradigma enorme, una metanoia, per usare un termine a lui caro: trasformazione profonda del nostro modo di leggere il mondo e relazionarci a esso.
Certo, oggi più che mai, il suo linguaggio appare “inattuale”: sembra non trovare posto nel pensare dominante, che è prettamente tecnico-economico e non lascia spazio a ciò che non risulta perfettamente razionalizzabile. Eppure, è forse proprio per questo che abbiamo bisogno di rileggerlo: Panikkar aveva colto che per trasformare l’esistente è necessario andare oltre il logos, intuire la profonda relazionalità del reale, l’armonia cosmoteandrica, che ci porta a riscoprire un modo diverso di intendere l’umano, sempre e comunque come elemento inter-in-indipendente di una relazione. Un umano in relazione con il cosmo e con quella profondità che qualcuno chiama Dio e a me piace pensare come mistero insondabile, viva sorgente di senso al di là dei nostri schemi limitati e limitanti.
Tornare a Panikkar ci spinge a riscoprire il pluralismo come chiave di lettura del mondo, ma anche come metodo, nel senso etimologico dell’essere “via” da seguire: intuizione di fondo, spinta ontonomica, che dà linfa al pensare concreto, all’agire politico, all’impegno ecologico (o meglio ecosofico) e al vivere comunitario. Alla fine di queste righe, non posso quindi che rispondere alle domande di partenza con un sì convinto: le sue parole ci parlano ancora, Panikkar ha ancora molto da dirci!
Di Ludovica Novelli