EDITORIALE
La visita del Segretario di Stato, Mike Pompeo, in Vaticano il 29 settembre si presenta tempestosa. È stata preceduta da una bordata di colpi ad alzo zero per prendere il bersaglio più significativo: la figura del Papa e il suo tentativo di intrattenere un dialogo diplomatico con la Repubblica Popolare Cinese. Pompeo chiede (o forse esige) alla Santa Sede di allinearsi alla politica di Trump in nome dei valori occidentali di libertà e di lotta al comunismo. La citazione è esplicita: «è necessaria la forza morale di coloro che liberarono l’Europa centrale e orientale dal comunismo».
Con atteggiamento imperiale Pompeo sottolinea l’esistenza di regimi autoritari e autocratici in Asia e in America, come se gli Stati Uniti fossero l’unico baluardo della civiltà. Forse gli sfugge quello che è accaduto nel cortile di casa con i golpisti e gli squadroni della morte sostenuti dalle agenzie americane. C’è comunque un rigurgito di fondamentalismo, che si esprime nella fioritura delle sette, che sono così funzionali al potere finché non toccano gli equilibri consolidati, anzi, possono godere di appoggi e denaro, come dimostra l’esempio del Brasile.
Ma il vero obiettivo di Mike Pompeo è quello di agganciare quel cattolicesimo conservatore americano così prezioso in vista delle elezioni presidenziali di novembre. La Chiesa cattolica infatti sta diventando prigioniera del denaro e dell’estrema destra statunitense. L’integralismo riaffiora sempre anche in veste italiana, con l’instancabile Carlo Viganò che del Papa è diventato uno degli oppositori più tenaci, o il cardinale Burke che flirta con il mondo ultraconservatore italiano. Basterebbe spulciare l’elenco delle imprese e dei giornali che gettano sulla persona di Francesco “pillole di arsenico” per demolire la sua opera. Lo sostengono una bella salute e una salda struttura interiore che gli permettono di dedicarsi al suo compito più prezioso: lavorare per una fraternità universale, come ha scritto nell’Enciclica “Fratelli tutti”. ◘
Redazione Altrapagina.it