DOSSIER - Raffaello: 500 anni dalla morte. Intervista a Matthias Martelli attore e autore di scritti teatrali
Lei sta preparando un lavoro dal titolo Raffaello. Il figlio del vento, che verrà messo in scena dal Teatro Stabile dell’Umbria. Come ha affrontato lo studio e l’interpretazione della vita e dell’opera del grande Maestro? Quale percorso ha seguito?
Ho affiancato l’osservazione diretta dei suoi capolavori con la lettura dei testi più celebri sulla vita e le opere. È stata una cavalcata entusiasmante perché la figura che avevo in testa, quella di un pittore certo straordinario ma non così intrigante come i geni tormentati (Michelangelo e Leonardo), si è totalmente ribaltata. Ho scoperto un Raffaello combattivo, appassionato e innamorato, mai banale, capace di imitare e poi sfidare i Maestri, di apprendere e innovare, di combattere per la difesa del patrimonio culturale, e infine di sfidare le concezioni sociali. Sono stato travolto dalla visione de La Deposizione Baglioni, che trasforma il dolore di una madre per la perdita del figlio in una magia fatta di figure quasi danzanti, volti contorti dal dolore, corpi vivi impegnati nello sforzo fisico, e il corpo di Cristo abbandonato alla morte. E poi La Trasfigurazione, la luce che colpisce le figure rapendole dal buio, i volti, ognuno con il suo tratto psicologico: lo stupore, la paura, il ribrezzo, e, nella parte sopra, l’arrivo di Gesù che trionfa in un mare di luce. Pensare che Raffaello è morto sotto questo enorme dipinto lo rende ancora più struggente. L’opera che mi ha condizionato ancora di più nella scrittura di questo testo è senza dubbio La Scuola di Atene: una folla di filosofi intenti a discutere le loro idee. Ci sono idealisti e materialisti, perfino atei, dentro un’architettura aperta e ariosa, come a dire: i loro pensieri hanno sfondato il tetto e conquistato il mondo. Per me quest’affresco è la rappresentazione dell’amore per la conoscenza.
Cominciamo dal rapporto con Urbino, che a fine Quattrocento era uno dei centri dello splendore artistico e culturale che coinvolgeva anche altre corti e altri centri urbani della Penisola.
Non può esserci Raffaello senza Urbino. Ho imparato che la città ducale è stata assolutamente fondamentale nella formazione e nel carattere del Divin Pittore. Raffaello nasce da Magia Ciarla e Giovanni Santi, pittore, drammaturgo, poeta e intellettuale di spicco alla corte urbinate di Federico da Montefeltro. Quest’ultimo aveva trasformato la piccola Urbino in una perla del Rinascimento e un perno della politica italiana. E allora forse non è un caso se, sei mesi dopo la sua morte, proprio in quella città trasformata, in quel crogiolo d’arte, scienza, matematica e cultura, nasce Raffaello Sanzio. La sua casa era (ed è) a pochi metri dal Palazzo Ducale, opera mirabile progettata e costruita dell’architetto dalmata Luciano Laurana (e in seguito completata dal senese Francesco di Giorgio Martini): è facile pensare che Giovanni portò sovente suo figlio a vedere le opere di Piero della Francesca, Pedro Berruguete, Giusto di Gand, La Città ideale, Lo Studiolo del Duca e le altre perle del Palazzo. Senza dire che la sua camera da letto era a pochi passi dalla bottega del padre.
Il Divino pittore gode di ammirazione universale, nel suo tempo e nei secoli successivi. Quali sono le ragioni di un tale, universale gradimento? Si può parlare di semplificazione del messaggio dell’artista, o addirittura di incomprensione della complessità spirituale e culturale della sua proposta?
È vero: l’opera di Raffaello ha goduto di un’ammirazione totale, ma è altrettanto vero che la sua figura è stata semplificata e banalizzata. Raffaello non ha goduto della curiosità e dell’attenzione che hanno invece circondato Leonardo e Michelangelo, pieni di contraddizioni e di misteri mentre l’Urbinate è stato marchiato spesso come il pittore della grazia, della perfezione e della delicatezza, diventando quasi noioso per il grande pubblico. È sfuggita, a me pare, la profondità intellettuale del suo messaggio, l’eros che trasuda da alcune sue opere, gli enigmi e le ambiguità di alcuni dipinti e di aspetti della sua vita.
Un giovane attore come lei, noto e apprezzato in tutta Italia, per essere la interpretazione vivente più efficace della grande arte di Dario Fo e del suo Mistero buffo, con quali motivazioni ha intrapreso lo studio della vita e dell’opera del Divino Pittore?
Credo che un artista dovrebbe continuamente studiare, aggiornarsi, farsi invadere dalla curiosità e dal desiderio di conoscere. Quando mi hanno proposto questo spettacolo sono esploso di felicità. Approfondire un periodo come quello rinascimentale e un artista come Raffaello, mio conterraneo, è stato certo complesso, ma soprattutto entusiasmante. Da qualche anno recito Mistero Buffo, che per me è l’essenza del teatro: uno spettacolo dove l’attore solo in scena, vestito di nero, senza scenografie, è incaricato di far esplodere l’immaginazione del pubblico solo con l’uso della mimica, della voce, del corpo e della gestualità. Ora la scommessa è unire questa lezione all’arte e alla vita di Raffaello. E alla fine ho scoperto che c’è tanto teatro in Raffaello, come c’è tanta arte visuale in Mistero Buffo.
Alla vigilia della stesura del suo testo finale su Raffaello, può illustrarci la sua chiave di lettura della vita e dell’opera del Sanzio? Quali novità interpretative può anticiparci?
Non sono un esperto di storia dell’arte, per cui mi sono avvalso delle ricerche scientifiche per far emergere una visione originale della vita di Raffaello, che possa incuriosire ed emozionare. In fondo nella sua vita c’è tutto e tutti ci possiamo riconoscere: l’infanzia dolce, le sfide, i viaggi, le speranze e le incognite, i successi strepitosi, le scelte difficili, il rapporto con il potere, con i collaboratori, le difficoltà dell’amore e l’esperienza precoce e straziante della morte. Dentro la vita di Raffaello c’è qualcosa di ognuno di noi. Dal punto di vista testuale ho usato La Scuola di Atene e le storie dei filosofi come collante per raccontare la vita di Raffaello. Da un punto di vista stilistico, l’interpretazione sarà all’insegna del teatro di narrazione mimico e giullaresco, con l’uso delle proiezioni, una scenografia “sognante” e l’indispensabile accompagnamento della musica dal vivo del Maestro Matteo Castellan. L’impresa è riuscire a ribadire che Raffaello 500 anni dopo è ancora di più Raffaello. Dolce, profondo, colto, passionale, dinamico, coraggioso, determinato, sorprendente. Mai noioso.
Redazione