Covid-19: La testimonianza di Fabio Scottà, Vicepresidente dell'Associazione Felìcita, costituita dai parenti delle vittime del Pio Albergo Trivulzio
Ad oggi ancora non è dato sapere quante siano state, tra le vittime del coronavirus, le persone decedute nelle case di riposo.
Svariate migliaia sicuramente, ma a un elenco dettagliato non si arriverà mai.
In alcune realtà se ne è andata così tutta una generazione, sacrificata quando, senza troppi scrupoli, la scelta su chi tenere in vita, nei giorni in cui il virus dilagava, si faceva dirimente.
Ai sopravvissuti - ha scritto Donatella Di Cesare nel saggio Virus Sovrano? dedicato ad un evento che ha già cambiato il ventunesimo secolo - il compito di riscattare la memoria altrui.
“Con la morte dell’altro - si legge - finisce anche quel suo unico, insostituibile mondo, che era anche un po’ il mio, che era anche un po’ il nostro. Perdita di mondo, perdita di memoria. Il distanziamento non può avere l’esito sommario di un lockdown delle vittime, se non si vuole un lutto spettrale, uno smarrimento ineluttabile”.
Il Pio Albergo Trivulzio di Milano è la casa di riposo che è un po’ l’emblema delle politiche fallimentari che hanno reso possibile l’espandersi incontrollato dell’epidemia.
A seguito dei fatti accaduti e dopo la costituzione del Comitato Verità e Giustizia del Trivulzio, i parenti delle vittime coinvolti nelle vicende delle RSA hanno dato vita alla Associazione “Felicita”.
Fabio Scottà ne è il vicepresidente. Ha perso la madre nel corso di quei drammatici giorni.
«Sin dai primi giorni di aprile era difficoltoso avere informazioni circa i propri cari ricoverati all’interno della struttura.
Mia madre era ospite da due anni del PAT e dall’ 8 di marzo la struttura è stata chiusa alle visite dei parenti. L’unico modo per avere notizie consisteva in una telefonata o in un video chiamata.
Il 13 marzo chiamavo per salutare mia madre e chiedendo informazioni sulla sua compagna di stanza venivo a sapere che l’avevano spostata a causa di una forte febbre. Da qui il motivo di una prima preoccupazione. Il giorno successivo mi hanno detto che la compagna era deceduta nel corso della notte».
Ma non si sapeva, già allora, che il virus è particolarmente aggressivo trascorsi 10/15 giorni dal contagio?
«Infatti avevo ipotizzato proprio questo e penso che uno degli aspetti più problematici sia stata la mancata separazione tra chi aveva sintomi evidenti e chi non ne aveva».
Parliamo di sintomi. Ma i tamponi da quando sono stati disponibili?
«Molto tardi, soltanto dal 17 di aprile. E sappiamo pure che tra le scelte della Giunta che governa la Regione Lombardia c’è stata quella di inserire i malati Covid a bassa intensità, provenienti da altre strutture ospedaliere, proprio all’interno di strutture per persone fragili e più esposte quali sono le RSA. Questo a fronte di una diaria di 150 euro a paziente. Un modo forse per far quadrare bilanci già piuttosto cospicui, dal momento che noi parenti paghiamo tra i 2600 e i 3000 euro di retta mensile che costituisce la parte residenziale del servizio mentre l’altra metà, quella sanitaria, è a carico della Regione».
Cinque / seimila euro, un fatturato notevole e facile da ottenersi in strutture che si occupano di persone fragili per le quali dovrebbero valere ben altri protocolli sanitari.
«La mia esperienza personale purtroppo dimostra che anche laddove questi protocolli esistono essi non sono stati rispettati. C’è una legge del 2010, al tempo della SARS, che prevedeva l’obbligo di tenere una riserva sempre disponibile di dispositivi di protezione individuale.Al PAT non c’erano e sono stati resi disponibili molto tardi. Vorrei ricordare che sia i medici che gli operatori sanitari si sono trovati a subire l’intimazione di non indossare le mascherine per non allarmare i degenti.
Sono queste le ragioni che ci hanno indotto a costituire il Comitato Verità e Giustizia per il Trivulzio e poi condividere queste esperienze all’interno di una associazione già attiva che si chiama Felicita e che fa riferimento ai diritti degli anziani nelle RSA. Quello che ci proponiamo è di promuovere una nuova cultura della vecchiaia e la giusta attenzione per le generazioni che hanno costruito questo paese».
Si chiamano case di riposo ma in realtà sono luoghi dove i vecchi vengono segregati e confinati prima di morire.
«Uno degli obiettivi è quello di ripensarne le finalità ma intanto operare per consentire una gestione personalizzata dei degenti che hanno necessità, a seconda dell’età e delle varie patologie, da parte di personale formato adeguatamente. Cosa che non si può basare sull’utilizzo di cooperative esterne che spesso non hanno le dovute competenze».
E pensare che il grande scandalo da cui si originò l’epoca di Tangentopoli ebbe inizio da una cooperativa addetta alle pulizie che operava proprio al Trivulzio.
«Già, ritornano alla memoria anche altre vicende deprecabili. Questa volta anche con dei morti.
Una strage silenziosa, come ha detto qualcuno che si era reso conto sin dall’ inizio del disastro e che ha aiutato anche noi a prendere coscienza di quanto accadeva.
Confidiamo nelle indagini della Magistratura per il cui lavoro stiamo raccogliendo testimonianze perché le autorità possano avere un quadro quanto più preciso possibile.
Sta emergendo anche la questione del cosiddetto scudo penale, che noi rifiutiamo in modo categorico perché non si arrivi a coprire le responsabilità politiche e manageriali di chi aveva il potere di decidere cosa fare e cosa non fare. E non mi riferisco a medici ed infermieri che hanno subito decisioni prese altrove e che hanno fatto tutto ciò che era possibile in una situazione drammatica come quella».
Abbiamo tutti ancora in mente le lunghe file dei camion militari che hanno trasportato le bare con le vittime del lockdown nei luoghi dove era possibile la cremazione. Un’offesa alla dignità della morte che appare irreparabile e che ha impedito alla comunità di elaborare il lutto e rischia anche di inibire la memoria.
«Non ho potuto più vedere, né sentire, né sapere più nulla di mia madre. Spero almeno di avere le giuste spoglie. Non avremo mai la certezza. Uno dei pilastri della nostra associazione sarà quello di erigere un muro della memoria: un muro digitale nel quale avremo la possibilità di ricordare i nostri cari, riportando le testimonianze dei parenti.
Il terzo pilastro è quello della vecchiaia. Ancora oggi le visite ai propri congiunti sono centellinate, impossibile abbracciarli nonostante siano negativi e senza sintomi. Vogliamo redigere un decalogo di regole comportamentali nel caso di una seconda ondata epidemica e cerchiamo collaborazioni con enti che si occupano di tali aspetti. La nostra associazione si offre anche come referente legale per i testimoni che decidono di riportare quanto di loro conoscenza.
Come ultima cosa volevo dire che ho letto sulla stampa di licenziamenti di fisioterapisti del PAT e temo che il tutto sia da ricollegare a ritorsioni nei confronti di chi non ha accettato l’imposizione di non riferire cose di cui può essere stato testimone. Dinamiche di questo tipo si sono verificate anche in altre RSA. Abbiamo avuto un incontro nei giorni scorsi con comitati di 25 strutture di altre Regioni».
Qualche giorno fa al Cimitero Monumentale di Bergamo si è tenuta, alla presenza del Capo dello Stato, una commemorazione funebre per coloro che il funerale non hanno potuto averlo. Alla cerimonia non hanno voluto partecipare i rappresentanti dei parenti delle vittime.
«Molti Lombardi oggi credo si stiano interrogando sulle responsabilità politiche di questo sistema sanitario: taglio dei costi, esternalizzazioni, rincorsa del fatturato, assenza del presidio territoriale.
La massimizzazione del profitto sembra essere la vera eccellenza della Sanità pubblica in Lombardia». ◘
Di Maurizio Fratta