Recensione. Lezioni sulla Modernità di Venanzio Nocchi
Il concetto di modernità è storicismo. Tutti i sentieri dello storicismo si incontrano nello spazio simbolico della modernità, a cominciare dal vecchio umanesimo progressista, universalista e borghese, universalista ed eurocentrico. Il concetto di modernità stabilizza un tempo storico monocromo, disposto su una linea periodizzante, da un prima ad un dopo, da un’Antichità che drammatizza dialetticamente il Moderno o da un Medioevo che lo precede cronologicamente, ad un Post-Moderno che lo congeda serenamente. La modernità senza concetto, invece, si nega agli affreschi e si lascia afferrare soltanto in immagini condensate ed enigmatiche, traumatiche e profetiche, come nella “protostoria” di Benjamin.
Venanzio Nocchi si muove sulla traccia illuministica e storicistica, e si richiama al Marx ancora acerbo del Manifesto, con il suo copione di una rivoluzione in cui il mercato mondiale capitalistico, frantumando feudalesimi, comunità rurali, corporazioni e localismi, diviene il motore dell’emancipazione universale del lavoro salariato. Si impone subito una replica: Il Marx del primo libro del Capitale vedeva le cose in ben altro modo, e ritraeva il processo moderno dell’accumulazione capitalistica come un’immane distruzione di forme di vita sociali e di rapporti collettivi, ad opera degli agenti monetari e industriali di una borghesia allevata nell’Assolutismo e divenuta adulta, e ancor più ambiziosa, nei parlamenti oligarchici dell’Inghilterra, del Nord America e della Francia del 1789. In questo mondo sconvolto, è stata la gigantesca macchina planetaria dei traffici e dell’estrazione coloniali a trainare duramente l’accumulazione capitalistica. Ma allora il segreto innominato della modernità non va cercato a Parigi o a Berlino, ma nelle società navali di Liverpool e nelle piantagioni delle Antille.
La “modernità” di Nocchi, non compie il passo della rottura epistemologica con lo storicismo, scivolando così nell’idealismo filosofico. Ma quale materialismo storico sto raccomandando? Rispondo: quello capace di respingere la successione progressiva delle epoche e dei modi di produzione e di riconoscere l’intrico di rapporti sociali e giuridici - schiavisti, servili e contrattuali - che la moderna divisione mondiale del lavoro congloba, scambia e ibrida nelle traiettorie di un mercato planetario, un composto variegato che Trotskij chiamò “sviluppo ineguale e combinato”. Senza dire della critica proto-ecologista dell’imperialismo sviluppata da Rosa Luxemburg e delle teorie della dipendenza nell’economia-mondo capitalistica, elaborate da Gunder Frank e da Wallerstein. Qui la modernità europea si stempera, rientra in un margine, e in nuovi scorci storici si scorgono, per esempio, la negritudine di Aimé Césaire, che non circoscrive un’identità, ma, secondo un’espressione di Merleau-Ponty, inaugura un’universalità laterale; il pan-africanismo di Nkrumah e di Amilcar Cabral; il tragico destino di Patrice Lumumba, travolto e assassinato nella guerra civile fomentata dall’union minière belga; Franz Fanon, psichiatra di una condizione coloniale popolata da quei “sottouomini” già svelati da Sartre e che soltanto la violenza potrà restituire all’umanità ed aprire al riscatto rivoluzionario.
Tutto questo esorbita dal discorso di Nocchi, eppure è modernità, anche se non è il concetto di modernità. Al suo storicismo, che culmina nello strano paragone tra la NEP bolscevica e il capitalismo tecno-liberal-punitivo della Cina attuale, sfrenatamente anti-maoista, oppongo l’antistoricismo delle sfasature storiche, e lo faccio ricordando che Walter Benjamin ha corretto l’immagine marxiana delle rivoluzioni come “locomotiva della storia”, con quella delle rivoluzioni come “freno d’emergenza” della storia. Le rivoluzioni sono “non contemporanee”, non sono progressiste.
di Baldassarre Caporali