Carceri. Il Covid-19 ha messo in evidenza le carenze strutturali degli istituti di pena
Oggi in Italia abbiamo circa 48.000 posti disponibili nelle carceri, mentre le presenze si aggirano intorno ai 58.500. Come è possibile applicare l’isolamento o le distanze di sicurezza in strutture sovraffollate, dove vivono persone spesso fragili con un passato di tossicodipendenza e altre patologie, fino a pochi giorni fa in carenza gravissima di dispositivi di protezione individuale, mascherine, guanti, ecc.?
Non c’è di che stupirsi se la parola d’ordine che circola nelle carceri italiane anche fra il personale amministrativo, gli agenti di custodia, medici compresi, è Paura. Paura per il contagio certamente, ma anche per una nuova ondata di rivolte dopo quelle drammatiche dell’8-9 Marzo: 27 istituti coinvolti, 13 detenuti morti per overdose, 60 agenti feriti, decine di evasi (poi arrestati), strutture devastate e intere aree degli edifici inagibili.
Quali le cause delle rivolte? È possibile che le ultime disposizioni per contenere il contagio (23 Febbraio) che hanno sospeso per i reclusi i colloqui, l’accesso in carcere ai volontari e i permessi-premio, abbiano esasperato una situazione di profondo disagio psicologico ed esistenziale della popolazione carceraria, di cui nessuno parla e nessuno si fa carico, al di là del contributo che arriva a gocce dal mondo del volontariato, e da qualche dirigente illuminato, in mancanza di una politica che metta in atto l’art 27 della Costituzione italiana, che prescrive il dovere di un trattamento umano e l’obiettivo della rieducazione: qualcosa che, per chi conosce il mondo delle carceri, suona quasi come una provocazione.
L’allarme è partito da tempo dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da Papa Francesco, dalle associazioni per i diritti dei detenuti, e lo stesso Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, il 25 Marzo da Ginevra ha chiesto ai governi del mondo di porre in atto tutte le misure possibili per ridurre il numero dei detenuti in carcere, in particolare i più vulnerabili in caso di contagio, le persone anziane o malate.
Il governo italiano ha affrontato il problema nel Dpcm del 17 Marzo negli articoli 123 e 124, in base ai quali chi ha una pena inferiore ai 18 mesi può scontarla agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, mentre chi è al di sotto dei 6 mesi anche senza braccialetto. Misure inadeguate secondo il Garante nazionale per i detenuti, e anche il Consiglio Superiore della Magistratura, che ha bocciato sia pure con un parere non unanime i provvedimenti, ritenuti “poco incisivi”, dal momento che la scarcerazione dipende in molti casi dalla possibilità di utilizzare i braccialetti elettronici, che tuttavia scarseggiano.
I detenuti usciti in virtù di tali disposizioni sono stati, secondo Bonafede, soltanto 200, di cui 50 con il braccialetto, mentre la disponibilità al 15 maggio è di 2.600 braccialetti per circa 6000 possibili carcerati in uscita. Numeri irrisori… e nessun dato invece su quanti siano i detenuti con pena residua fino a 6 mesi, per i quali il dispositivo elettronico non è necessario.
Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, a questo riguardo ha protestato pubblicamente contro un provvedimento, che a fronte dei 5000 braccialetti programmati, di cui 920 già disponibili, prevede l’istallazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana, un numero “ampiamente insufficiente”, che comporterà un tempo di oltre tre mesi, per l’uscita dal carcere di tutti gli aventi diritto.
Difficilissimo del resto avere informazioni attendibili sull’attuale diffusione del virus. Franco Alberti, coordinatore del sindacato FIMMG settore medicina penitenziaria, ha annunciato (GR3 del 28 Marzo) la morte di un medico delle carceri della Puglia, aggiungendo che risultano positivi al Covid-19 15 medici penitenziari, di cui 9 nel carcere di Bologna. Intanto il 31 Marzo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha fatto sapere che ci sono 116 agenti di polizia e 19 detenuti positivi al coronavirus. E le cronache del 2 Aprile hanno registrato il primo caso di morte per coronavirus fra i detenuti italiani: un 76enne, recluso nell’istituto bolognese della Dozza, già ricoverato in terapia intensiva all’ospedale sant’Orsola.
Scrive Cristina, la madre di un detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Regina Coeli in una lettera a “la Repubblica” del 5 Aprile nella cronaca di Roma: mi rivolgo a tutte le autorità che hanno il potere di risolvere la situazione di mio figlio e di quella di tante altre persone che come lui sono in attesa di giudizio e pertanto da considerarsi innocenti fino a prova contraria. Non è mia intenzione difendere mio figlio ad oltranza. Verrà giudicato per quello che ha fatto o non ha fatto. In questo momento sono qui per chiedere di dare applicazione alla nostra Costituzione per la quale non è prevista la pena di morte. (… ) Mio figlio ha problemi di salute seri (...) Sto implorando di non farlo morire in carcere per un contagio che non perdona. Forse dopo il processo potrebbe essere anche scagionato. Chi ridarà la vita a mio figlio, allora, chi mi risarcirà della sua perdita? Non lo posso vedere, non gli posso parlare: può fare solo una telefonata di 10 minuti alla settimana A volte mi chiedo se non sia condannata più io insieme a lui…».
“Briciole di libertà, briciole di salute: questa ci sembra la sostanza dei nuovi provvedimenti per fronteggiare il rischio di coronavirus nelle carceri. Soluzioni deboli e inadeguate, in luoghi in cui c’è fame di tutto, di spazi più accettabili, di cure, di informazioni attendibili” (Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia).
Di Daniela Mariotti