Il coronavirus ci ha fatto scoprire l’inganno. Per decenni abbiamo vissuto in un mondo artificiale, irreale, a volte surreale. Una specie di set cinematografico come descritto nel film Truman Shaw, il cui protagonista scopre di essere stato la cavia di un pazzo regista che ha manipolato la sua vita dalla culla all’età adulta, dandola in pasto a un pubblico morboso, fino a quando non scopre l’inganno. Allo stesso modo abbiamo rappresentato il nostro mondo da oltre 50anni dentro una scenografia in cui eravamo sia gli attori sia il pubblico seduto sugli spalti, esecutori e narratori allo stesso tempo, chiusi dentro una immensa bolla hollywoodiana in cui gli altri, due terzi dell’umanità, la natura, le altre specie viventi non hanno avuto accesso, neanche come comparse. Questo mondo è cresciuto su se stesso raccontando e raccontandosi che tutto era possibile, che non c’erano limiti a qualsiasi impresa, tecnologica o scientifica o di altro genere. Così ci siamo cullati sull’idea che le nostre democrazie liberali fossero inattaccabili e le migliori forme di governo del mondo; così abbiamo ritenuto la nostra civiltà il punto di arrivo per tutte le altre; così ci siamo ripetutamente detti di aver vissuto “70 anni di pace” grazie al nostro sistema di valori, alla economia di mercato sempre in crescita che ci ha regalato un sacco di cose inutili, grazie alla borsa, al Pil, al Nasdaq, Down Jones, a Wall Strett, allo spread, nuovi santuari e riti della religione del "dio denaro". Quotidianamente appaiono nelle nostre case e si ascoltano le loro litanie come una volta ci si raccoglieva intorno al desco facendo il segno della croce. Chiusi in uno spazio virtuale non ci siamo resi conto che al di fuori di quel perimetro erano gli altri a pagare il prezzo di questa sceneggiatura, con i loro corpi, con le loro miserie, con le loro risorse, con le loro schivitù. Tutto un mondo ordinato a patto che gli altri sottostessero alle regole di sfruttamento da noi imposte. Compresi gli immigrati improvvisamente scomparsi dalla circolazione e grazie ai tanti “Pifferai Magici” come Salvini. Per difenderci da questi intrusi abbiamo addirittura eretto muri, barriere, frapposto ostacoli per respingerli e rendere la nostra società sicura, anzi: securitaria. Ci siamo chiusi in un bunker pensando che fosse inattaccabile. Poi è arrivato un piccolo animaletto invisibile che può superare tutte le corazze, tutte le barriere e tutte le trinccee, materiali e immateriali. La sicurezza che pensavamo dover difendere da un nemico esterno è crollata come un castello di carte.
Un piccolo virus ha svelato l’ipocrisia della falsificazione nascosta all’interno della trama narrante da noi scritta; uno schiaffo in faccia all’ignavia di tutti coloro che hanno ritenuto che si potessero costruire stili di vita insostenibili sulle spalle degli altri e della natura. Abbiamo sperimentato una forma di schiavitù globalizzata in cui una piccola parte deteneva il monopolio della ricchezza e delle decisioni uniformemente imposte a tutti, costringendo due terzi dell’umanità a una quarantena permanente e forzata. Questa epidemia frantuma non solo mercatismo, neoliberismo e globalizzazione, ma ci riconduce all’origine della nostra modernità, là dove si è affermato per la prima volta che i beni sono la misura di tutte le cose, che il sapere è potere, che la relazione uomo-mondo non ha più bisogno del sacro, che la nostra civiltà è il punto di arrivo della storia, che tutti gli altri devono inchinarsi, che il mito americano della “città sulla collina” è paradigma universale e che tutto ciò che va bene agli americani va bene per tutti. Quel faro di civiltà che discrimina gli uomini non solo in vita ma anche nella morte, riservando ai più poveri la sepoltura in fosse comuni.
Il piccolo ha sconfitto il grande. L’insignificante ha sconvolto la ragione che tale non era. L’infinitamente piccolo è diventato la pietra d’inciampo che ci costringe a ripensare tutto. Le forme della politica, dello Stato, dell’economia non potranno più essere quelle di prima, nonostante si voglia ritornare ai blocchi di partenza. Costi quel che costi. Compresi quelli già pagati dai lombardi costretti a lavorare, e morti, in nome del profitto, per le pressioni esercitate dalla Confindustria e da quella classe politica che, prona, si è accodata alle decisioni dei potenti. Insieme agli anziani dimenticati nelle case di riposo, perché bisognava dimostrare che tutto va bene signora la marchesa. Settemila aziende hanno continuato a lavorare in Lombardia, dopo che la regione è stata dichiarata “zona rossa”. Il “verbo” del profitto ha mostrato il suo volto peggiore, ma oggi ha trovato un nemico temibile: il virus.
Ripartire è necessario, ma come afferma Noam Chomsky: «Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema». Ciò non significa che quando avremo attraversato il deserto tutto sarà migliore, compresi gli uomini che ci hanno portato a questo sfacelo.
Lo ha giustamente spiegato Davide Quemman, divulgatore scientifico americano: i virus ricordano che l’uomo ha una radice biologica, naturale come gli animali, e se distruggiamo l’ambiente tagliamo il ramo dell’albero su cui siamo seduti. La relazione tra uomo e natura è costitutiva, la sua esistenza dipende dalle leggi della natura e non c'è nessuna tecnologia che possa sostituirla. Invocare il fare è importante ma non risolutivo, se non non si farà lo sforzo di capire cosa abbiamo lasciato per strada quando abbiamo imboccato la via di questa modernità aggressiva.
Le pagine che seguono daranno conto delle reazioni registrate nel nostro |
di Antonio Guerrini