Una Pasqua lontana quella del 1940, l’ultima di pace prima che l’Italia dichiarasse guerra al mondo. Sono passati ottant’anni tondi tondi da quel tempo, quando la mamma esortava il figlioletto a «stare attento alle biciclette quando attraversi il corso» . Se il Natale era annunciato dal profumo dei mandarini, perché questi non potevano mancare nei regali che il Bambino portava ai suoi coetanei, così la Pasqua profumava di primavera ma anche di altro. Le prime avvisaglie che il giorno della Resurrezione non era poi così lontano, si percepivano per la festa di San Giuseppe, patrono della Chiesa e protettore della famiglia, con particolare riguardo ai babbi, che cade il 19 di marzo, allora giorno festivo, perché non potevano mancare le frittelle di riso, al santo dedicate, che guazzavano e friggevano nello strutto, sulla grande padella posta sopra il “focone” accanto al banco di “Pino dei semi”, all’ingresso del Cinema Eden, allora chiamato Littorio, in corso Mario Angeloni. Poco distante altre frittelle friggevano all’ombra del convento delle “murate”, al banco del corpulento “Pedana”. E sempre quel giorno, nell’aria che sapeva di vaniglia, zucchero, unto e carbonella, si rivolgevano al padre putativo di Gesù le fanciulle carenti di petto. Questo perché il santo, suo malgrado, era stato coinvolto in questi petti piatti. Come tutti sanno San Giuseppe esercitava il mestiere di falegname. Così, raccontava la nonna: un giorno chissà chi, vedendo una giovane in penuria di petto, si vuole che abbia esclamato: «su quel petto c’è passato San Giuseppe col pialluzzo», non era vero, ma non si sa mai, così le fanciulle si raccomandavano al santo affinché lasciato il pialluzzo, fornisse loro almeno una terza misura. Oggi con il silicone per San Giuseppe c’è un’incombenza di meno.
Ormai la Pasqua era veramente vicina, l’aria sapeva di petrolio, varichina, olio cotto, alcol, ranno. Le donne “arvultichèono la chèsa de cima a fondo”, per le pulizie pasquali nei vicoli sarebbe «passata l’acqua santa a benedire le case». Le reti dei letti venivano portate fuori nel vicolo, irrorate di petrolio per pulirle dalla polvere e dagli insetti, i materassi sollecitati dai battipanni e disinfettati, con il disappunto di tanti animaletti che vi avevano messo su casa. Con la varichina si bonificavano le stanze e la cucina, con uno straccio intriso nella cenere si rendevano lucenti le brocche di rame. Con l’olio cotto si rinvigoriva il portone di casa. Con il ranno si puliva il fondo dove una coniglia incinta sonnecchiava e una gallina scodellava l’uovo. La domenica delle palme in chiesa davano rami d’ulivo in segno di pace. Incominciava la settimana santa. Quel giovedì la visita ai sepolcri. Credenti e miscredenti, chi per fede, chi per curiosità, erano tanti quelli che visitavano gli spogli altari in quelle chiese semibuie, con vasi di piante anemiche, pallide. Nei campanili le campane erano state legate, a loro supplivano le “treccole” per annunciare le funzioni religiose. La treccola era un rudimentale e antico strumento, una tavoletta di legno con fissati due ferri snodabili che, con il movimento della mano battono ritmicamente sul legno producendo un suono penetrante e triste, che soprattutto i giovani battevano per i vicoli, le strade. La notte del venerdì santo la processione del Cristo morto. C’è una tragica storia che coinvolge Città di Castello con il venerdì santo. Quella notte dell’8 di aprile 1468, terminata la processione del Cristo Morto, i tifernati andarono a dormire. Non tutti, Niccolò Vitelli, capostipite di questa potente famiglia, era ben sveglio. Con lui c’erano una trentina di fedelissimi pronti a “dare una definitiva lezione alla famiglia Fucci”. A quel tempo i Vitelli, per potenza, erano diventati in città secondi, dopo i Fucci, e intendevano diventare i primi. Quella notte il Golgota era nelle nostre strade. Fu assaltato il palazzo Fucci, sfondato il massiccio portone a capo della scalinata, furono passati a fil di spada due anziani servitori. Le donne, strappate dai letti, oltraggiate e decapitate. Fu una carneficina. Nessuno fu risparmiato, né vecchi né bambini… Così si diventa primi. E quella mattina del sabato santo 1940, con il sole che fa capolino dietro la collina di Salebbio, le donne impastavano i dolci pasquali: ciaramia, torcolo, ciaccia dolce, ciaccia col formaggio, pasta Margherita, crostello… allocati poi in appositi tegami o teglie, questi venivano portati a cuocere nei tanti forni che costellavano la città. Da Urbano in via del Luna; da Pazzaglia ai Tre nonni; da Cesca in via dell’Incontro; da Traversini in via della Mattonata; da Soldi a Rignaldello e Prato…erano tanti i tegami dentro questi forni. In una confusione indescrivibile, ogni donna cercava di riconoscere il suo manufatto con un foglietto appiccicato al dolce, che non sempre aveva lievitato, allora erano dolori per il fornaio e le donne. Era mezzogiorno, si scioglievano le campane mute da tre giorni, un tripudio di suoni. Si riconoscevano dal suono, le chiese. Quel suono di campane riempiva il cielo e il cuore…e i profumi dei dolci uscivano dai tanti forni intrecciandosi tra di loro, facendo felici i ragazzi di quel 1940. Felici come pasque, appunto. Le rondini sfrecciavano con repentine virate attorno al quadrato campanile della Madonna delle Grazie e la mattina di Pasqua si mangiavano le uova sode benedette, facendo attenzione a non disperdere il guscio. Quel 10 giugno Mussolini decise di gettare l’Italia nella fornace della guerra…e niente sarà più come prima. Neanche il crostello.
di Dino Marinelli