LAVORO. Ceramica: la riscoperta di una tradizione antica
I più antichi manufatti ceramici rinvenuti nel territorio tifernate risalgono all’abitato protostorico di Riosecco. I reperti possono essere datati dalla fine del VIII al VI sec. a.c.
La loro affinità con fogge vascolari adriatiche e venete fornisce la testimonianza di come esistessero collegamenti culturali profondi tra l’Alta Valle del Tevere e l’area adriatica e centro- settentrionale della penisola. Altri e numerosi reperti ceramici risalenti al periodo romano sono stati rinvenuti sia nel centro storico che nelle zone sub urbane ed extra urbane. Dopo l’epoca romana le prime testimonianze legate alla ceramica risalgono al XII secolo quando è attestata a Città di Castello la presenza di corporazioni o “università” di vasai. Nei tre secoli successivi, alcuni documenti attestano come i vasai fossero tenuti in considerazione nel comune tifernate, tanto che nel 1498 uno di loro, tale Antonio de Borgolis, figulus, figura nel Consiglio dei Trentadue e dodici anni più tardi nel Consiglio dei Priori.
Importante la testimonianza di un certo Agostino di maestro Aurelio, vasaio tifernate che nel 1584 scriveva ai priori e ai Consiglieri del Comune di Arezzo “...desideroso d’impatriarsi et insieme ancora metter l’Arte delle vasa bianche nella Città loro d’Arezzo...”. Da queste testimonianze possiamo evincere che Città di Castello fosse uno dei centri più antichi nella lavorazione delle maioliche, e soprattutto quelle denominate “mezza maiolica” con decorazione a “graffito”, “sgraffito”, ricorre spesso nelle maioliche dal XVI secolo in poi e va sotto la denominazione di bianchetto. Autorevole la testimonianza di Cipriano Piccolpasso (nato a Castel Durante, attuale Urbania, nel 1524 e morto nel 1579) che nel suo trattato I tre libri dell’arte del vasaio del 1548 parla di ceramica alla castella e di Colori Castellani; spiegandone la composizione adopera l’espressione “...lavorare alla Castellana. Nei secoli successivi lo studioso ceramista Giovan Battista Passeri ci parla dei colori che si chiamavano alla castellana, ma ci dice anche che al suo tempo (1800 ca) le fabbriche Castellane non esistevano più. Anche Angelo Genolini nel suo volume Le maioliche italiane ce ne parla diffusamente. La produzione di Castellana durò presumibilmente per tutto il ‘500, poi fu soppiantata nei gusti dei committenti dalle più preziose ceramiche prodotte negli altri centri vicini, come Gubbio, Deruta e Casteldurante. Sicuramente rimase una produzione di ceramica d’uso comune e questa si protrasse fino alla fine dell’800 e ai primi anni del ‘900. Nel 1945 Aldo Riguccini (Derigù) avviò la Ceramica del Coppo; aprirono i battenti anche le “Ceramiche Artistiche Aretini-Santinelli” e, con l’appoggio finanziario di Salvatore Spinelli, l’attività di ceramisti dei fratelli Dante e Angelo Baldelli.
Nell’entusiasmo del momento, risorse anche l’Accademia dei Coccianti. La ripropose proprio Riguccini, al quale si unirono tutti gli altri ceramisti tifernati. La sede dell’Accademia era a Palazzo Vitelli alla Cannoniera, al pian terreno della Pinacoteca.
La Fabbrica Ceramiche Baldelli nel 1947 occupava una quindicina di operai e produceva ancora prevalentemente manufatti ordinari di uso domestico. I modelli di Dante Baldelli stavano però facendo breccia sul mercato e già giungevano ingenti ordinazioni. Il laboratorio contava dunque di espandersi e richiese corsi per apprendisti in modo da formare personale specializzato. Il 1948 segnò l’affermazione delle ceramiche tifernati. La “Baldelli” inviò una prima importante spedizione di prodotti a Filadelfia; pure la “Spinelli” prese a lavorare per il mercato americano. Le due principali fabbriche tifernati del settore apparivano alquanto solide. Entrambe dovettero promuovere corsi di formazione professionale per tornitori e decoratori. La “Baldelli”, in virtù del talento di Dante e delle sue frequentazioni, si affermò come ceramica prediletta da uno stuolo di artisti. Il giovane tifernate Alberto Burri si servì spesso di essa, per lavori minuti e di cospicue dimensioni. Dante Baldelli, sue estimatore, lo propose per primo localmente nella sua Galleria dell’Angelo. Altri artisti contribuirono a far conoscere il laboratorio ben oltre le mura di Città di Castello: Piero Dorazio, Achille Perilli e Nunzio Gulino. Per tutti costoro Dante Baldelli, per la sua conoscenza della tecnica della ceramica, fu un importante punto di riferimento. La “Baldelli” arrivò a occupare, nel 1959, una ventina di addetti. La sua produzione fu molto apprezzata all’estero, specie negli Stati Uniti. Anche per tale considerevole esportazione di manufatti di alto pregio la piccola fabbrica di Riosecco indicava agli imprenditori locali la strada verso nuovi orizzonti, impegnativi ma raggiungibili. L’accentuata vocazione della “Baldelli” verso l’esportazione permise alle ceramiche di Città di Castello di convivere. Il laboratorio di Aldo Riguccini si limitò a una selezionata produzione artistica mentre Fernando Bizzirri, già dipendente della Spinelli, si mise a capo di una società che dette vita alla Artigiana Ceramica Umbra, assumendo fin da subito circa 20 dipendenti. Alla fine degli anni ’50 Bizzirri e Baldelli figuravano come le uniche due aziende operanti nel settore a Città di Castello.
Attualmente grazie agli sforzi congiunti di Luca Baldelli, Rosario Salvato, Simonetta Riccardini e l’ausilio di aziende private, Città di Castello è annoverata fra le circa cinquanta città italiane riconosciute come “Città della Ceramica”. Fiore all’occhiello dunque, nonché testimonianza di una antica vocazione ancora viva.
di Andrea Cardellini