Lettere da Babele
Fare cose con le parole”: contrariamente a quanto banalmente pensiamo, le parole sono in grado di produrre “cose” ed eventi. Non a caso John Austin ha intitolato un suo importante libro How to do things with words, Come fare cose con le parole. Ma quali “cose” fanno le parole? Evidentemente non quelle del mondo fisico. Ma qualcosa di almeno altrettanto importante: il significato che diamo al mondo fisico, la qualità delle relazioni, l’ecosistema della nostra vita culturale e politica. E se le parole sono così importanti, fino a dove possiamo trascurare o addirittura manipolare il linguaggio senza subirne conseguenze negative? Bérengère Viennot è una attenta studiosa del linguaggio (insegna traduzione all’Università Paris VII), anche se nel suo ultimo libro si presenta modestamente come “traduttrice”. In Italia è pubblicato da Einaudi e si intitola La lingua di Trump. Sa bene che non basta sapere due lingue per poter tradurre. Occorre comprendere il testo originale, il quale deve avere “un senso, un referente, un messaggio da trasmettere”.
Occorre aver ben chiaro il contesto in cui una frase è pronunciata o scritta, pena il fraintendimento. E occorrono anche altre cose, ma non abbiamo spazio per parlarne adesso. E che cosa c’entra Trump? C’entra perché la sua è una Newspeak, una neolingua, capace di mettere in difficoltà anche il più esperto traduttore.
La lingua di Trump è volgare e confusa, farcita di errori sintattici e di frasi che non hanno né capo né coda, di sarcasmi e invettive. Spesso i traduttori cercano di rendere con eufemismi, attenuano, non sanno bene cosa fare. Usa frasi minime, fatte solo di principali (le frasi subordinate richiedono di pensare…), slogan, immagini, offese personali, denigrazione sistematica dell’avversario. La sintassi scompare, la coerenza non si è mai vista, il martello batte sugli stessi tasti. Analisi della prima intervista dopo l’elezione: compare 45 volte great, 25 volte win, 7 volte tremendous. La stessa cosa è poi avvenuta in tutti gli interventi successivi. Scrive la Viennot che questo campo lessicale limitato è inondato da superlativi, aggettivi generici, avverbi esagerati, sfuggendo programmaticamente alla precisione e alla concretezza, perché più le parole sono precise, sofisticate, colte, minore è l’ambiguità semantica. Ciò rende impossibile verificare la verità e l’efficacia del discorso politico, ma al contempo offre una sensazione di superamento del noioso politichese e la convinzione che si tratti di uno che, paradossalmente”, “le dice chiare”. Parlando dei suoi avversari politici non argomenta la superiorità delle sue posizioni, ma denigra semplicemente la persona: uno è “addormentato”, l’altro è “piccoletto”, un’altra è “una strega”, un altro ancora “un perdente”. Non si tratta di modalità presenti solo in Trump: in giro per il mondo troviamo più di un politico che usa gli stessi sistemi. Che al momento sembrano essere sostanzialmente efficaci per acquisire consenso.
C’è da chiedersi però quanto si possa tirare la corda nella denigrazione sistematica delle regole del linguaggio (non molto diverse da quelle della democrazia). La coesione di una nazione è frutto della condivisione di un insieme, minimo quanto si vuole ma necessario, di regole e comportamenti, anche linguistici.
di Anselmo Grotti