Di Matteo Martelli
Sulla Scuola (per non dire dell’Università) si sente di tutto: nei giornali, nei talk-show, nelle riviste, nei social e nel comune parlare e sparlare.
La scuola - non solo italiana - meriterebbe, invece, una diagnosi seria. Sarebbero necessarie analisi approfondite: delle strutture, delle organizzazioni, delle didattiche, delle pratiche quotidiane, degli investimenti. E l’esame rimanderebbe all’organizzazione sociale, alle scelte parlamentai e governative, ai comportamenti dei genitori, alla formazione dei docenti e del personale impegnato nei servizi collegati all’insegnamento, alle modalità di educazione e ai valori sociali e culturali trasmessi ai ragazzi negli ambienti familiari, negli spazi sociali e in quelli scolastici. Senza dire dell’esempio che la classe politica offre un giorno sì e l’altro pure.
Non si tratta di sognare un mondo che non c’è. È urgente misurarsi con la realtà e operare di conseguenza.
Il primo tema da affrontare riguarda la formazione e la selezione dei docenti. L’Università vive uno dei periodi più critici degli ultimi 70 anni e non ha né i mezzi né le persone, adeguatamente preparate e scelte, per consentire ai giovani di acquisire la preparazione e le competenze necessarie a svolgere il mestiere dell’insegnante nell’epoca di Internet. L’Università meriterebbe attenzione e investimenti. La Scuola, che non può contare su persone preparate e selezionate, è costretta ad affidarsi a docenti precari, privi dello status e degli strumenti necessari ad affrontare il delicato compito della formazione e dell’insegnamento. Partiamo dai dati, che sono preziosi. Già nell’anno scolastico 2017-18 i numeri erano preoccupanti: il 30% degli studenti iscritti in prima non completava il quinquennio. Nell’ultimo anno (2018-19) abbiamo registrato un significativo calo degli iscritti: 1 milione e 553 contro 1.567.00 dell’anno precedente. E il decremento maggiore lo registra la primaria: 23.000 (4,6%)! Nelle superiori il numero più alto di iscritti è registrato nei licei (54,6%), contro il 31% dei tecnici e il 14,4 dei professionali. Se controlliamo gli investimenti nella scuola e li confrontiamo con gli altri paesi europei, scopriamo dati impressionanti: in Italia raggiungono il 3,83% del Pil, in Germania il 4,45%, nel Regno Unito il 5,4%, in Francia il 5,43%, senza citare i Paesi del Nord Europa che impegnano nell’istruzione dei propri cittadini tra il 6% e il 7%.
La stampa italiana a più riprese ha richiamato l’attenzione sulla scuola.
E il richiamo ha riguardato l’innovazione didattica e le tecnologie digitali. So che è ben attrezzato il “partito” che fa la guerra alla rivoluzione tecnologica degli ultimi trent’anni. È condivisibile la preoccupazione di chi teme che il solo ingresso dello smartphone non migliori né l’insegnamento né l’apprendimento. Penso, tuttavia, che la tecnologia digitale costituisca un arricchimento strumentale e culturale senza precedenti, sia per l’insegnante che per l’allievo. Non è certo il mero ricorso a slides, video e prodotti digitali che garantisce il coinvolgimento dell’allievo e il miglioramento del suo apprendimento. Anche in tali pratiche possono manifestarsi banalità e stereotipi culturali. La tecnologia digitale, si chiede Anselmo Grotti nel suo Come comunicare, ci rende più stupidi o più intelligenti? Acquistiamo o perdiamo diottrie? E quali strategie digitali sono consigliabili negli ambienti formativi? È suggestiva la differenza che Grotti segna tra “produrre” e “generare” con la convinzione che l’ambito digitale può favorire processi e sviluppare relazioni. Cioè arricchire l’insegnamento. Che va collocato in un ambiente laboratoriale.
E se il tema dell’educazione alla ricerca è sostenuto dagli insegnanti più attrezzati sul piano pedagogico e culturale, non si può omettere il riferimento alla Legge 107/2015, di cui va profondamente rivisto l’impianto, a cominciare dal tema del rapporto scuola-lavoro. Perché, come è stato giustamente osservato, prima che ad una professione la scuola prepara alla vita, accompagna l’allievo nella crescita, nell’apprendimento, nell’immaginazione e nella progettazione non solo del proprio futuro. Proprio nella Valtiberina, come altrove, nella seconda metà del Novecento si sono registrate esperienze virtuose di alternanza scuola-lavoro, che non condividono nulla della logica della legge citata, che subordina la formazione alle strutture e alle logiche produttive. È stato giustamente osservato: è necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. E la stessa moratoria va richiesta per altre pratiche esaltate negli ultimi tempi (gli obblighi che riguardano sia la metodologia CLIL che le prove INVALSI). I temi urgenti come non mai riguardano l’inclusione e la dispersione scolastica.
La scuola in ogni paese ha un valore e una funzione politica. E chi governa, a livello locale, nazionale ed europeo, è invitato a ripensare la teoria e la pratica delle norme e delle politiche per la scuola e per l’università. Come le organizzazioni sindacali, le associazioni culturali e tutti i soggetti che intendono operare per il bene dei cittadini.
Finalizzata al ripensamento culturale della scuola italiana, ad esempio, è l’iniziativa “Il futuro non aspetta”. Sappiamo che nel 2019 (Legge n. 19) è stato reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica. Il rischio del bluff lo avvertono tutte le persone che conoscono la scuola. Come poteva succedere precedentemente, così potrà accadere oggi e domani: l’educazione civica – che dovrebbe essere tema obbligatorio in tutte le discipline –, interpretata come disciplina a sé, si traduce in poche indicazioni istituzionali e, soprattutto, in generiche nozioni giuridiche. Il progetto “Il futuro non aspetta”, indica – invece – tematiche specifiche che riguardano i problemi all’odg in Italia e nel mondo per contribuire alla formazione di una coscienza civica: il cambiamento climatico, l’efficienza energetica, la gestione dei rifiuti, le bonifiche ambientali, la corretta coltivazione della terra, le abitudini alimentari e le pratiche sanitarie. E su questa strada tematiche fondamentali dovrebbero essere quelle che riguardano la legalità, la cittadinanza digitale, il diritto alla salute, il benessere personale e collettivo, la sostenibilità ambientale.
Anche le norme relative agli esami, alla fine del primo ciclo di studi e alla fine del secondo ciclo vanno ripensate.
Ma come? Per l’anno scolastico in corso non ci sono molte novità. Sia per la fine del ciclo di base (8 anni) con l’esame di stato in terza media, sia per la conclusione del quinquennio delle superiori (liceali, tecniche e professionali). È stata opportunamente cancellata l’invenzione del sorteggio delle buste nell’orale dell’esame di stato (che ha caratterizzato l’esame nel 2019), è stato reintrodotto il tema di storia. Ma forse l’intero esame dovrebbe essere ripensato e concentrato sulla valutazione dei livelli di formazione e di personalizzazione conseguiti dagli allievi.