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Crisi di civiltà, neofascismo e diritti umani

crisi civilta1Mi permetto di dare un consiglio gratuito ma non disinteressato alle élite: converrebbe tenere presente che nessuno è così povero da non trovare un fiammifero e nessu­no così ricco da permettersi di non avere mai paura. Nel nostro mondo dominato dalla fantasia dei comunicatori la democrazia liberal rappresentativa e le sue istituzioni diffondono notizie che nulla o quasi nulla hanno a che fare con i veri conflitti globa­li che si muovono tra la vita e la morte, individuale e/o collettiva. Il capitale e le imprese trasna­zionali, con l’aiuto determinan­te delle istituzioni finanziarie internazionali, dei mass-media e dei governi, sono impegnati a distruggere qualsiasi diritto che impedisca o renda più comples­so il loro univoco disegno: la mercatizzazione globale. Poiché le élite intendono mantenere e continuare ad aumentare i loro profitti, le pratiche contro le per­sone, le comunità e la natura non cesseranno ma, viceversa, diven­teranno sempre più estreme.

La realizzazione di questa tendenza generale si sviluppa e si evolve diversamente a seconda dei Pae­si, dei tempi e dei territori. Assu­me forme concrete differenziate, ma i toni autoritari assunti dal sistema democratico non sono soltanto una deviazione tempo­rale e congiunturale, rappresen­tano invece l’affermazione di un nuovo spazio neofascista che diventa ogni giorno più istituzio­nalizzato e generalizzato. Va da sé: questo spazio non è uguale a quello degli anni ’20 o ‘30 del Novecento e si lega strettamente alla crisi di civiltà provocata dal capitalismo. Essendo le vicende legate al ventennio fascista note, mi sembra comunque opportuno ricordare che pure in Germania, nel 1933, il Partito nazista rag­giunse il potere per via elettorale e riuscì a costruire e consolida­re la sua dittatura in pochissimi mesi. Diversamente dal fascismo classico, il neofascismo odierno riesce - per ora - a convivere con le istituzioni rappresentative del modello liberale e le istituzioni giuridiche dello Stato di diritto, svuotandone però il contenuto e trasformandole in istanze pu­ramente formali. Per costruire un’architettura politica basata su idee neofasciste generate da en­tità private e dal potere corpora­tivo non sembra necessario, per ora, sacrificare gli “epici scontri elettorali” per far approvare e costituzionalizzare una serie di limiti non negoziabili che inqua­drano e definiscono la sovranità popolare. Ciò malgrado, poiché le istituzioni che derivano dalla democrazia liberale sono sempre meno funzionali agli interessi delle élite, si aprono comunque nuovi spazi di potere e nuove ar­chitetture istituzionali lontane dai principi democratici formal­mente accettati. La crisi di civiltà in corso ha portato con sé un in­durimento delle modalità usate per esercitare il potere. Tuttavia, l’accentuarsi dell’autoritarismo non può ovviamente essere qua­lificato automaticamente come fascismo.

Gli esempi d’imbarba­rimento dei modelli formalmen­te democratici sono molteplici. Spaziano dalla gestione della cri­si in Grecia al rapporto tra lo Sta­to spagnolo e la Catalogna. Assu­mono toni assai più accentuati dal Cile alla Bolivia e all’Hondu­ras, dal Libano all’Afghanistan e al Niger. Negli Stati Uniti, dove i soprusi autoritari sono merce abituale, è comunque notevole che un milione di persone mi­granti siano state messe agli ar­resti al confine meridionale nel 2019. Se aggiungiamo gli affari legati alla moltiplicazione delle carceri e dei carcerati, appare le­gittimo domandarsi se l’aumento esponenziale degli arresti conno­tato dal razzismo contro i poveri sia solo un eccesso antidemocra­tico o evidenzi invece una rotta verso qualcosa di più complesso. Spero di sbagliarmi, ma temo che con Trump e i suoi compari “il peggio debba ancora arriva­re”. Se ci atteniamo ai problemi evi­denziati finora, mi sembra rile­vante, nel contesto di una nuo­va dinamica globale, collegare e contestualizzare fatti che il pote­re politico-economico definisce e rappresenta come isolati ed ecce­zionali. Intendo dire, ad esempio, che la politica di sterminio prati­cato dallo Stato d’Israele contro i palestinesi, la violazione dei di­ritti delle bambine e dei bambini documentati nei centri di deten­zione statunitensi, i 35.000 morti e scomparsi (utilizzo volutamen­te la stima più bassa tra quelle in circolazione) nel Mediterraneo negli ultimi anni e il cimitero clandestino, di dimensioni incal­colabili, per migranti nel deserto del Sahara, non sono fatti isolati. Si collegano e corrispondono a una logica globale che si configu­ra come un nuovo spazio neofa­scista che ha ormai raggiunto un alto livello di istituzionalizzazio­ne e che continua ad aumentare. Mentre la sovranità popolare si diluisce nell’armatura istituzio­nale, la morte occupa il centro della gestione economica e poli­tica, non solo né esclusivamente per i suoi effetti pratici. Nel ne­crocapitalismo che ci tocca vive­re, la morte è la categoria globale giustificatoria. In questo conte­sto, tollerare ciò che è eticamente intollerabile è diventata parte in­tegrante dei nuclei centrali della pratica politica. Se dovessimo confrontarci con una versione classica del fascismo, si dovrebbe parlare di una soppressione tota­le dei diritti e delle libertà, di un attacco generalizzato verso ogni forma di dissenso e del predo­minio incontestato dell’industria della morte.

Oggi non ci troviamo davanti a uno scenario complessivo di questo tipo. Tuttavia, mi sem­bra evidente che l’autoritarismo estremo stia creando un nuovo spazio neofascista all’interno del quale determinate pratiche diventano regole e non più ecce­zioni. Tra queste pratiche, alcune colpiscono la stessa configura­zione dei diritti umani. Mi rife­risco, ad esempio, alla necropoli­tica, ovvero all’indurre o quanto meno all’accettare con la stessa rassegnazione con cui si accetta una pioggia autunnale, la morte di migliaia di persone colpevoli solo della loro provenienza e po­vertà. Alla frammentazione dei diritti in base alle categorie di persone. Alle pratiche razziste ed eteropatriarcali. Ai trattamenti eccezionali applicati a determi­nati gruppi collettivi. Alla tratta degli esseri umani. Alle deporta­zioni di massa. E a un lungo ec­cetera. Mi riferisco alla distruzione in blocco dei diritti delle persone, dei popoli e della natura, eviden­ziata dalla crisi climatica e dal­la distruzione degli ecosistemi. Ai femminicidi, che riguardano le donne, ma che coinvolgono anche ogni tipo di diversità di genere. Ai campi di concentra­mento per interi popoli, colpevo­li solo di voler sopravvivere. Alla persecuzione ed eliminazione dei dissidenti.

Alla crescita dei più brutali metodi coloniali e alla moltiplicazione delle guer­re di distruzione di massa. Mi riferisco agli attentati al nucleo centrale dei diritti collettivi. Ad esempio, all’impossessamento privato dei beni comuni, al con­solidamento della precarietà nel nocciolo costitutivo dei rapporti di lavoro, alla riorganizzazione neoliberista della produzione e della riproduzione, alle espulsio­ni di milioni di persone dai loro territori a esclusivo beneficio delle grandi aziende, che s’im­possessano – anche legalmente – delle loro terre e beni naturali. Insomma, all’alba del 2020 pen­so che il minimo che si possa af­fermare senza rischi di smentita è che le elite, i governi e le isti­tuzioni economico-finanziarie non si limitano a cancellare e a sospendere diritti, ma sono im­pegnati a riconfigurare una loro mappa fondativa. La mappa che stabilisce chi è soggetto di diritti e chi resta fuori dalla categoria che raggruppa gli esseri uma­ni. Questo supera largamente il consolidamento elettorale della estrema destra, e la feudalizza­zione dei rapporti economici, politici e giuridici continua a colonizzare l’architettura istitu­zionale delle democrazie rappre­sentative.

di Andrea Rodrigo Rivas


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