Leda, una bastardina dal pelo corto e fulvo, figlia di una cooperativa, unica compagnia della vecchiaia di Giacinto il ciabattino, pardon… “il calzolaio che lavorava di fino”, come lui con orgoglio amava definirsi. Era un tracagnotto, Giacinto, più largo che lungo, con la testa pelata e lucida come una palla da biliardo, che diventava rossa come la polpa di un cocomero maturo quando si arrabbiava, e questo succedeva spesso. Ogni volta che, per farlo incazzare, lo chiamavano ‘ciabattino’. Lui che aveva fatto le scarpe su misura alla principessa Isabella Vitelli, Rondinelli, Boncompagni. Anche se questo non corrispondeva a verità, lui stesso, a forza di ripeterlo ai suoi detrattori, ormai ci credeva sul serio. Indossava perennemente una giubba, una volta scura, ormai color caffè con ruote, di fierA in fiera, a cercare elemosine. Leda a quel tempo era giovane e forte.
Il mendicante, dopo le “fiere dei morti” di Perugia, portato dal trenino assieme a Leda e alla carriola, arrivava a Città di Castello per partecipare alle fiere di San Florido di metà novembre. In quei giorni alloggiava in un’osteria, una delle tante che fino a una sessantina di anni fa presidiavano la città. Si rassomi gliavano tutte, queste osterie, né migliori né peggiori, quasi sempre, le une dalle altre: quattro o cinque tavolini di legno con il piano bruciacchiato in più punti da chi ci smorzava il sigaro, la sigaretta, o scaricava la pipa tra una partita a carte e l’altra, in compagnia del mezzo litro di vetro bollato contenente il vino. Una decina di sgabelli con un buco al centro, dove si infilava la mano per spostarli più agevolmente. Nelle pareti quadretti di carta vetra non più grandi di una spanna, dove si “scriccavano” zolfanelli e fulminanti. In fondo, il bancone per la mescita del vino con il piano di marmo grigio e striature nere dove allineati una dozzina di bicchieri capovolti attendevano di essere riempiti. Dietro, su in alto tra qualche bottiglia di vinsanto e canajola, la sagoma di compensato di un gobbo segnatem- po: l’alzarsi o l’abbassarsi di un braccio stava a indicare il buono o cattivo tempo. Dal soffitto “spindolava” qualche salsiccia secca, vicino a torcoletti all’ani- ce. Non mancavano, bene in vista e inascoltati, due cartelli che invitavano a non bestemmiare e sputare per terra. Invece si sputava anche sul focone o braciere che scaldava il locale e allora la brace friggeva e per un attimo diventava nera, per poi tornare più ardente di prima, pronta ad accogliere le castagne ‘castrate’ che più arrostivano, più quella bocca incisa sorrideva e il profumo dei “marroni” si mescolava a quello del vino nuovo impregnando il locale di una gradevole miscela.
E in attesa delle fiere del patrono della vecchia Tiferno, il mendicante si accomodava sopra un consistente guanciale, in un angolo in fondo all’osteria vicino al sottoscala trasformato per l’occasione in sua camera da letto. Era ghiotto di porchetta, che gustava accompagnata da vino rosso e da Giacinto. Erano diventati amici i due. Ormai per Giacinto era diventata una consuetudine aspettare l’amico per le fiere…e parlavano per ore. Chissà cosa si raccontavano, specialmente il lunedì che i calzolai facevano festa, allora pranzavano assieme, bevevano vino e alla sera le gambe di Giacinto traballavano. Quelle del mendicante no.
Quando Leda cominciò a perdere le forze, complici gli anni che non risparmiano neanche i cani, e non ce la faceva più a trainare il mendicante, questi cercò un altro cane giovane. Gli fu regalata da un contadino della Baucca, una bestia sprizzante forza e vivacità, come si addice a un cane di poco più di un anno.
Passarono altri San Florido, Giacinto attese invano il men dicante, ma quel posto vicino al sottoscala rimase vuoto. Rimase invece con Giacinto Leda che il suo padrone aveva affidato al ciabattino…volevamo dire il calzolaio, assieme a una dote di cinquecento lire, che in quegli anni trenta del secolo scorso non era poca cosa. Vissero serenamente i loro ultimi anni, Leda e Giacinto, due creature vecchie che si facevano compagnia. A Giacinto piaceva il vino e lo beveva e inzuppava pezzi di pane nel bicchiere per Leda che, ormai senza denti, lo prendeva al volo, seppur stancamente. Morirono, sempre serenamente, quasi assieme, Giacinto e Leda, di cirrosi.
Dino Marinelli