Saggezza indigena

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Lucia Capuzzi. Giornalista di Avvenire e vaticanista

Alleanza. In questa parola si può riassumere il Sinodo sull’Amazzonia che si è svolto a otto- bre a  Roma. Alleanza tra Chiesa e popoli indigeni. Tra essere umano e casa comune. Tra donne e uomini di differenti culture. «I nativi hanno chiesto con forza alla Chiesa  di  essere loro alleata nella lotta per la vita delle persone e della Madre terra, nella regione amazzonica e nel mondo intero», spiega padre Eleazar López Hernández, messicano di etnia zapoteca e uno dei più noti esperti di Teolo- gia india. Proprio per tale ragio- ne, il sacerdote – consulente del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – ha partecipato all’Assemblea dei vescovi. «Non sono amazzonico. Per il lavoro con il Celam ho avuto spesso contatto con i fratelli della regione. I popoli dell’Amazzonia non si trovano solo alla periferia sociale dell’America Latina. Essi sono la periferia della periferia indigena. Sono praticamente sconosciuti al resto dei nativi poiché la maggior parte è entra- ta in relazione di recente con il resto della società e della Chiesa del Continente. Tale contatto si sta rivelando violento come – o forse peggio – quello avvenuto cinquecento anni fa dalle altre etnie», afferma padre Eleazar.

Perché è tanto importante l’alleanza con la Chiesa per gli indigeni?
«Questi ultimi  non  vogliono una Chiesa a bordo delle navi dei conquistatori, vecchi e nuovi. Essi chiedono che la Chiesa scenda dai galeoni e navighi nelle canoe dei più poveri. I vescovi, riuniti nel Sinodo, hanno assunto tale impegno e il tempo ci darà se davvero sapranno portarlo avanti».

L’America Latina ha ancora un debito non saldato con i popo- li indigeni?
«Non solo ce l’hanno tutte le nazioni latinoamericane ma anche l’Europa. L’arrivo, cinquecento anni fa, dell’uomo bianco e europeo nelle terre di Abiayala, ora chiamate America, ha implicato per quest’ultimo arricchimento immediato e sviluppo. Ottenuto, tuttavia, a spese dello sfruttamento e della morte dei popoli nativi. Questa relazione asimmetrica e ingiusta si mantiene tuttora. È urgente cambiarla. Il Sinodo ha esortato a una profonda conversione. A un cambiamento di mentalità. Non dobbiamo più incontrarci come carnefici e vittime né conquistatori e conquistati. Dobbiamo ritrovarci come fratelli che condividono lo stesso destino e la stessa casa comune. Gli indigeni non cercano una rivincita per i torti subiti: vogliono soluzioni che tutelino la vita di tutti, a cominciare dalla Madre terra. Desiderano di cuore mettere fine al passato di dolore e di morte e costruire un futuro migliore per ogni essere umano».

i popoli dell’amazzonia non si trovano solo alla periferia sociale dell’america latina. Essi sono la periferia della peri- feria indigena. sono praticamente sconosciuti al resto dei nativi...

Come il Sinodo può contribui- re a tale cambiamento di rapporto?
«Il Sinodo ha offerto una nuova prospettiva. I popoli indigeni hanno sottolineato i vescovi – non sono solo poveri. Essi sono anche diversi dal punto di vista culturale e religioso. A causa di questa differenza, i nativi hanno valori e punti di vista che possono arricchire il resto dell’umanità e la Chiesa. Papa Francesco ha chiesto, non a caso, che prima di pensare a come aiutare gli indios a uscire dalla povertà, è necessario ascoltarli e imparare da loro. In tal senso, il Pontefice riconosce che essi non sono la malattia, ma la medicina per vincere la malattia».

A lungo gli indigeni sono stati oggetto di stereotipi. È cambiato il nativo nell’immaginario comune dell’America Latina? In che senso?
«È recente la considerazione dell’indigeno come parte integrante delle società nazionali e della Chiesa. Nei primi cinquant’anni dell’epopea missionaria successiva alla Scoperta Conquista, il nativo fu oggetto diretto dell’azione evangelizzatrice. In un certo senso, i religiosi vedevano nei popoli del Nuovo Mondo la possibilità di rivivere il cristianesimo dei primi tempi. Con il procedere della colonizzazione, però, si perse questa carica positiva nei confronti dell’indio. Non solo. I nativi erano considerati finiti, estinti. È vero che ci fu un feroce crollo demografico degli amerindi. Ne sopravvisse il 10 per cento a causa dei maltrattamenti e delle malattie portate dai conquistatori. Gli indigeni finirono, dunque, per diventare irrilevanti per la società e per la Chiesa. Era come se non esistessero più. Perfino quando nell’Ottocento vennero scoperte meravigliosi monumenti e città delle civiltà precolombiane, archeologi e studiosi mostravano profonda ammirazione per gli indigeni del passato e nessuna considerazione per quelli del presente. Erano incapaci di cogliere una connessione tra i primi e i nativi concreti che si trovavano di fronte».

occorre uscire dalla trappola di pensare a come aiutare i nativi, come contribuire af- finché escano dall’emarginazione in cui sono stati confinati. Dobbiamo chiederci, al contrario, come salvare la vita sulla terra

Quando è  cambiata  questa idea?
«Con l’irruzione  violenta  dei nativi nello scenario politico e sociale di vari Paesi latinoamericani negli anni Novanta. Un punto di snodo è di certo la rivolta dell’esercito zapatista in Chiapas, nel sud del Messico, nel 1994. Allora, il resto del mondo e delle nazioni latinoamericane si è accorta dell’esistenza degli indigeni. Tanti hanno anche fatto proprie le loro proposte alternative che questi popoli da sempre vivevano nella quotidianità. Ora, gran parte  della  società  civile  e religiosa è consapevole della saggezza indigena. Una sapienza che può arricchire e ispirare modelli di vita innovativi non solo nella sfera civile bensì anche in quella religiosa».

Anche il Sinodo rientra in que- sta riscoperta?
«Il Sinodo è il risultato di una lunga lotta degli indigeni e degli agenti pastorali che l’hanno accompagnata nella società e nella Chiesa latinoamericane. A lungo, la voce dei popoli amerindi è stata silenziata, disprezzata o ignorata. Poi, la crisi climatica ha messo sotto gli occhi di tutti ciò che gli indigeni hanno sempre affermato. Ovvero il fatto che è necessario cambiare le relazioni con la terra, le persone, gli altri esseri viventi. In caso contrario, l’umanità non potrà sopravvivere».

La causa degli indigeni è, dun- que, la causa dell’umanità?
«Proprio così. Occorre uscire dalla trappola di pensare a come aiutare i nativi, come contribuire affinché escano dall’emarginazione in cui sono stati confinati. Dobbiamo chiederci, al contrario, come salvare la vita sulla terra. Gli indigeni non vogliono essere salvati, cercano alleati che combattano al loro fianco nella battaglia per la vita. Come dicono gli zapatisti in Chiapas: «Per tutti Tutto, niente per noi». Se si risolve il problema per l’umanità anche la questione indigena troverà soluzione».