Personaggi. Il Dott. Paolo Ducci al centro di una vicenda sindacale nel 1969
E' passato giusto mezzo secolo da quell’autunno caldo 1969 che segnò indelebilmente un prima e un dopo nella società italiana dell’epoca. Tra i protagonisti di quella temperie di confronto/scontro un ben noto tifernate che allora occupava, giovanissimo, un ruolo di primo piano alla SACFEM di Arezzo (1000 dipendenti) quale Capo-Ufficio Personale. Paolo D. Ducci, proveniente da studi di giurisprudenza a Firenze, dopo un’esperienza nel mondo assicurativo, si specializzava all’I.S.E.O.(Istituto Studi Economici Organizzativi) di Milano e divenne così responsabile del SE.RE. (Selezione e Retribuzione) dell’azienda metalmeccanica aretina del gruppo Bastogi.
Come responsabile della politica sindacale aziendale come ricorda quel periodo turbolento che avrebbe cambiato per sempre le relazioni tra organizzazioni imprenditoriali e sindacati?
«Avevo effettuato circa duecento assunzioni e conoscevo quindi in profondità quanto si stava agitando tra i lavoratori in linea con la straordinarietà del momento nazionale al tempo dei rinnovi contrattuali: anche alla SACFEM il confronto fu duro e non risparmiò colpi a effetto da entrambe le parti, pur in un quadro di sostanziale rispetto reciproco. La vertenza fu lunga e articolata e sfociò in un accordo complesso che andava a normare innovativamente in ogni aspetto, dai cottimi alle liquidazioni extra.
La produzione fu più volte a rischio di sospensione, sia per il blocco imposto dalle proteste operaie sia per l’irrigidimento dell’ azienda, che di fronte alla proclamazione dello sciopero a medaglia (astensione dal lavoro delle maestranze alternativamente pari o dispari secondo il numero dei rispettivi cartellini), minacciò la chiusura temporanea dell’attività. La prospettiva della realizzazione di un nuovo stabilimento, con tutto ciò che di positivo ne poteva derivare anche a livello occupazionale, contribuì a stemperare le tensioni maggiori in un contesto di ‘antagonismo civile’».
Lei fu pure testimone della trattativa a livello nazionale…
«Quale membro della Delegazione Nazionale Industriali Metalmeccanici dal ‘68 (il più giovane d’Italia ndr) partecipai al confronto, dai toni spesso quanto mai aspri, che si tenne a Roma nel Palazzo sede di Confindustria, e alla fine la lungimiranza di Gianni Agnelli fu determinante nella sigla dello storico accordo dopo due anni di trattative, che con ogni probabilità si avviarono alla soluzione, prima ancora che ai tavoli ufficiali, in colloqui riservati tra il mitico segretario CGIL Luciano Lama e l’Avvocato che, sfruttando la comune fede juventina, lo condusse con sé all’allora Comunale di Torino e, nell’intervallo della partita presso la club-house dello stadio: il giorno dopo tutti si allinearono a quell’intesa».
Come poteva definirsi il clima sociale dell’epoca? «Era un clima di forte contrapposizione, che sfociava spesso anche in gesti violenti. Proprio a Roma alcuni esponenti confindustrali furono fatti segno a fitti lanci di sanpietrini. C’era comunque, in ambedue gli schieramenti, un’ampia consapevolezza che quell’accordo avrebbe aperto nuovi orizzonti per il Paese, determinando alla fine sia migliori condizioni di lavoro, sia di maggiore produttività».
Alcuni aneddoti significativi?
«Ce ne sarebbero tanti: ad esempio, durante uno sciopero con blocco degl’ingressi ottenni dai rappresentanti sindacali di far passare cinque unità in posti strategici per non rischiare la continuità aziendale (dalla centralinista al direttore ufficio vendite sino al sottoscritto, con il compito specifico di vigilare sulla situazione impedendone eventuali degenerazioni e di mediare ad oltranza, anche per scongiurare eventuali interventi delle forze dell’ordine): dalla massa degli scioperanti un esagitato mi lanciò una monetina che mi colpì in testa come una sorta di proiettile, riconobbi nel lanciatore un “raccomandato” che io stesso avevo dovuto assumere per pressioni congiunte arrivate da ogni ambiente, non escluso quello curiale. Immediatamente fu preso di forza da uno dei più focosi capi della protesta, che in men che non si dica lo ridusse all’impotente silenzio».
Cosa cambiò nell’azienda e nel Paese dopo lo storico accordo?
«C’era la diffusa speranza che quelle lotte, culminate con il varo dello Statuto dei Lavoratori, avrebbero prolungato il boom economico degli anni ‘60; la firma del Contratto Nazionale dei Metalmeccanici (e di conseguenza di quelli degli altri comparti produttivi) ebbe una ripercussione enorme sulla vita del Paese, sia in ambito economico che sociale: avrebbe portato a ulteriori significative conquiste da parte dei lavoratori (scala mobile in primis). Purtroppo questo virtuoso percorso, che riscuoteva vasti consensi emarginando di fatto le rispettive posizioni
estremistiche delle controparti, fu interrotto dal nefasto avvento degli anni di piombo: una serie di tragici eventi con i famigerati attentati compiuti da una manovalanza indottrinata e con ogni probabilità manovrata da oscuri mandanti, con lo scopo preciso di impedire il miglioramento del tenore di vita del popolo per il quale pure asserivano di combattere. Che differenza con la paludosa situazione odierna!».